Christopher Chitty. L’omosessualità come libertà umana
Un estratto dal volume di Christopher Chitty Egemonia sessuale. Sodomia, capitalismo e l’arte del governare. Traduzione di Biagio Mazzella, Meltemi 2023, collana Culture Radicali. L’estratto è comparso su Minima&Moralia.
[Immagine di copertina: Querelle de Brest, Fassbinder]
Christopher Chitty. L’omosessualità come libertà umana. È mai esistito un omosessuale? E anche ammesso che sia esistito in passato, esiste ancora? Forse è troppo presto per porre la domanda di Jean-Paul Sartre, tratta da Santo Genet, al passato; dopotutto, ci sono ancora degli uomini che si identificano con questa parola, per quanto possa essere diventata fuori moda o camp. D’altra parte, la domanda di Sartre potrebbe colpire i lettori di oggi, in particolare una generazione più giovane e queer, con maggiore profondità di quanto non facesse al suo pubblico negli anni ’60: “Esiste un omosessuale? Pensa? Giudica, ci giudica, ci vede?”. Che cosa contava del suo esserci, allora o oggi? Da quale punto di vista lo si potrebbe determinare?
Il modo in cui un soggetto omosessuale si è scontrato con una particolare forma di società borghese potrebbe essere ciò che conta per la sua esistenza, piuttosto che il modo in cui la società borghese e le sue istituzioni hanno reagito a questo antagonismo o hanno cercato di classificare scientificamente il suo comportamento e il suo desiderio. Si tratta di un passaggio significativo, con conseguenze di ampia portata sul modo in cui viene definito l’oggetto d’indagine, dalle considerazioni politiche su quale prospettiva di classe viene enfatizzata a quelle empiriche sulle condizioni di possibilità di un’ipotetica comunità omosessuale nel sistema-mondo capitalista. Richiede, soprattutto, di separarsi da un pezzo tanto amato della doxa foucaultiana, ossia che l’omosessualità sia stata prodotta discorsivamente dalla scienza sessuale. In realtà, però, gli antagonismi sociali e le categorie di comprensione intellettuale esistevano già prima dell’avvento della scienza sessuale: sono state quest’ultima e le altre istituzioni a cercare di sussumerle sotto il termine “omosessuale”. Le epistemologie scientifiche sessuali, che inizialmente circolavano tra le classi professionali d’élite, avrebbero richiesto un immenso apparato militare-burocratico, dei maggiori tassi di profitto, degli standard di vita più elevati, un’alfabetizzazione generale e l’istituzione di unità familiari normalizzate tra le classi lavoratrici per raggiungere qualsiasi tipo di egemonia al di fuori della comunità letteraria storicamente borghese. La comprensione psicologica dell’omosessualità ha ottenuto l’egemonia intellettuale al di fuori dell’Europa e tra le classi popolari europee solo dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale.
La domanda di Sartre – esiste un omosessuale? – non è così paradossale o ironica come potrebbe sembrare in un libro su Jean Genet. Né si è interrogato sull’esistenza di un omosessuale da un punto di vista unicamente fobico, negando il fatto che esistano desideri, comportamenti o sottoculture sessuali tra uomini. Tutt’altro. Non si tratta di una domanda sulla “sessualità” in sé, per come siamo arrivati a intendere questo fenomeno nei termini di espressione o identificazione con la scelta di oggetti sessuali, sentimenti o comportamenti erotici o tradizionali modelli di bellezza.
Per Sartre, si trattava di stabilire se un soggetto omosessuale rappresentasse o meno un punto di vista sulla libertà umana. Era profondamente insoddisfatto della prospettiva adottata dagli importanti scrittori omosessuali Marcel Proust e André Gide, che sostenevano che gli omosessuali sono così come sono in quanto risultato di una costrizione naturale, patologica o meno. Che questa compulsione sia innata o costruita culturalmente non avrebbe fatto differenza per Sartre. Secondo entrambi i paradigmi, l’essere dell’omosessuale è immaginato come un’identità inerte e passiva. Nessuno dei due può spiegare l’omosessualità come un essere-per-sé, una coscienza che approva e sceglie sé stessa trasformandosi attivamente. “Esiste un omosessuale?” vuol dire chiedersi se una vita omosessuale è diversa da altre forme di vita, “nel senso che” potrebbe essere scelta liberamente in quanto negazione consapevole dei dati sociali e culturali, piuttosto che un’espressione o un’identificazione con una forma di costrizione, per quanto naturale o costruita culturalmente. “Se esiste”, scrive Sartre, “tutto cambia: se l’omosessualità è la scelta di una mente, allora diventa una possibilità umana”.
Si consideri il monologo interiore di Querelle, l’antieroe di Genet, come una descrizione esemplare della libertà omosessuale che Sartre attribuisce a Genet. Questa scena primaria, tratta da Querelle de Brest, rappresenta problemi storiografici che sono il punto focale dell’analisi che segue. Prima della scena in questione, l’aitante marinaio Querelle viene ricondotto negli alloggi del suo ufficiale superiore, il tenente Seblon, per recuperare un fazzoletto preso in prestito e macchiato di morchia, invertendo così la dinamica di potere di un incontro precedente sul ponte della nave, in cui il tenente aveva rimproverato e minacciato di punire Querelle per aver indossato storto il berretto rosso d’ordinanza per “aver l’aria da guappo”:
“‘Checca’, che cos’è una checca [pédé]? È un rottinculo?” [Querelle] pensava. E lentamente la sua bocca si richiuse un po’, mentre gli angoli delle labbra si piegavano in una smorfia di disprezzo. Il pensiero di quest’altra frase gli infondeva un vago torpore: “Anch’io sono un rottinculo”. Pensiero che non riusciva a mettere a fuoco, che non gli ripugnava, ma di cui avvertì la tristezza quando si rese conto di stringere le natiche al punto da sembrargli che non toccassero più la tela dei calzoni.
Questa scena di riconoscimento ed embodiment solleva problemi di traduzione e di interpretazione che non si limitano alla difficoltà di tradurre i due insulti – pédé e enculé – da un idioma all’altro. Certo, tali insulti interpellano i due uomini di classi diverse all’interno di una comunità sessuale immaginata, nella quale dei codici comprensibili solo agli iniziati (o ai paranoici) regolano il conoscibile sulla potenzialità erotica tra gli uomini e sulla sua repressione. Come questa conoscenza coinvolga gli individui, sostenendo le relazioni di potere, è un tema familiare della letteratura omosessuale del XX secolo e della sua reinterpretazione da parte della critica letteraria queer, a partire da Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità di Eve Kosofsky Sedgwick.
Questa tradizione di critica letteraria era in ultima analisi divisa tra la tesi che la soggettività sessuale in questione fosse prodotta principalmente da un’identificazione con l’abiezione – idea che apre certe possibilità di auto-trasformazione, di inversione e di trasvalutazione dei valori – e quella che fosse prodotta principalmente come una ribellione alla scienza e alla psicologia sessuale, rendendo la sua sensibilità, per quanto sovversiva, essenzialmente reazionaria. Sebbene le singole opere si contraddistinguano come esplorazioni tematiche di uno o dell’altro paradigma interpretativo, la produzione ha sostanzialmente oscillato tra i due poli dell’abiezione e della patologizzazione con una caratteristica indecidibilità. La tradizione ha ampiamente sviluppato questa opposizione tropologica: la dialettica dell’abiezione tra legge e trasgressione, da un lato, e la dialettica della patologizzazione tra norma e sovversione, dall’altro. Se sia filosoficamente proficuo mantenere queste due dialettiche analiticamente separate o farle collassare in una dinamica comune – magari ricordando il caso analogo dell’antica opposizione sofistica tra nomos e physis, gli ordini consuetudinari e naturali delle cose – esula dallo scopo della presente indagine.
La mia sensazione, in breve, è che questa ambivalenza interpretativa in merito alla letteratura omosessuale sia il riflesso di una più profonda prevaricazione ontologica sulla naturalità e alla costruzione dell’omosessualità, nel preciso momento in cui questi problemi sono stati considerati risolti dalla teoria queer e quindi al di là di ogni indagine critica. In un ritorno davvero perverso del represso, l’opposizione storica di Foucault tra individuo normale e anormale – o, più astrattamente, tra il “normativo” e il “queer” – è diventata una chiave di lettura che ha permesso alla formazione della teoria queer di reintrodurre un naturalismo o un essenzialismo sulla sessualità attraverso la sua critica dell’“ipotesi repressiva”. In questo modo, alcuni degli scritti più risolutamente anti-essenzialisti della produzione intellettuale – come ad esempio Questione di genere di Judith Butler – devono ancora postulare qualcosa di extra-citazionale nelle performance autoriflessive di sovversione del genere, un’eccedenza che sfugge sempre alla presa del potere.
La teoria queer ha generalmente minimizzato le relazioni di classe al centro delle scene letterarie di incontro sessuale, di riconoscimento e di interpellazione ideologica, come quella descritta sopra tra Querelle e il tenente Seblon. Ciò è in parte dovuto all’ovvio pregiudizio di classe delle fonti letterarie; tuttavia, è anche riconducibile alla riduzione teorica dell’ideologia e degli effetti ideologici ai discorsi o ai testi, piuttosto che alle lotte sociali, così come all’assunto automatico che gli omosessuali siano esistiti più o meno tra tutte le classi in tutti i periodi di tempo.
Naturalmente, il discorso è di per sé materiale e ha effetti materiali, ma quando l’interpellazione è ridotta a una funzione del linguaggio, o dell’enunciazione performativa, la nostra analisi dell’ideologia non può rendere conto né di come la particolare posizione di Querelle in una divisione del lavoro possa averlo reso un soggetto o un oggetto sessuale, né di quali condizioni richiedano una punizione per infrazioni così piccole come un’inclinazione civettuola di un berretto, né di come la sua coscienza sessuale possa differire da quella del suo ufficiale superiore. Queste considerazioni intertestuali richiedono una teoria sociale o un discorso storico supplementare per poter diventare intelligibili. Poiché la teoria queer non è mai stata “solo” una lettura delle fonti letterarie, e ha di fatto prodotto una sofisticata cornice teorica per tassonomizzare anche la produzione culturale dei soggetti sessuali dominanti più in generale, forse è meglio leggerla come una metastoria, vale a dire come una teorizzazione della storia gay nel suo registro generico, o forma, di apparizione. Una delle modalità soggettive in cui questa storia si è manifestata è il romanzo omosessuale, che la produzione intellettuale della teoria queer ha rigorosamente teorizzato. L’altra modalità soggettiva, considerata a lungo in questo capitolo, è l’esperienza degli storici gay negli archivi delle burocrazie statali. Forse a causa della grande capacità della teoria queer di eseguire un’analisi degli artefatti di una cultura borghese ormai morta, la sfera pubblica plebea scoperta dagli storici gay non ha trovato posto nella loro metastoria come teatro dell’omosessualità moderna.
Non è necessario condividere la filosofia esistenzialista di Sartre, né la sua preferenza per il pronome personale maschile, per apprezzare il valore del modo in cui egli inquadra la questione. Il problema elude la grande disputa tra i postmodernisti sull’essenzialità o la costruzione culturale del binarismo di genere, perché tanto le risposte nominaliste quanto quelle essenzialiste si rivelerebbero del tutto insufficienti a rispondere alla domanda. Formulare la questione in questo modo significa allontanarsi da una storia di comportamenti e identità sessuali devianti, dalla loro relazione puramente negativa con qualche legge o norma, e interrogarsi invece sulle possibilità trasformative ed emancipative dell’amore e dell’intimità al di fuori delle istituzioni della famiglia, dello Stato e della coppia. Queste possibilità creative potrebbero essere universali, date alcune condizioni, e non strettamente limitate alla scelta dell’oggetto dello stesso sesso. Didier Eribon trova una particolare risonanza di tale visione sartriana della libertà nella cultura maschile gay del secondo dopoguerra, quando scrive:
Se le strutture mentali della vergogna e della dominazione non possono essere descritte nei termini di una filosofia della coscienza, ciononostante occorre che la decisione individuale partecipi al fondamento della liberazione e dell’emancipazione, anche se è evidente che questa scelta individuale diventa possibile (tranne rare eccezioni) solo perché esiste il contesto sociale e culturale creato dalla “cultura gay” e la possibilità di “contro-socializzazione” che essa instaura, anche a distanza.
Questa concettualizzazione più espansiva della soggettività sessuale contro-egemonica, che lascia aperto uno spazio per la decisione individuale, potrebbe essere affrontata da un’altra angolazione, considerando ciò che Adrienne Rich definisce “il continuum lesbico” nel suo classico saggio Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica. Rich espande la categoria dell’esistenza lesbica al di là di un’attrazione sessuale genitalmente organizzata e orientata verso le donne, al fine di “includervi molte altre espressioni di intensità affettiva primaria fra donne, quali il condividere una ricca vita interiore, l’alleanza contro la tirannia maschile, lo scambio reciproco di appoggio pratico e politico”. Se l’eterosessualità segnava un’esperienza obbligatoria di intimità e di opportunità di vita, allora una qualche alternativa lesbica doveva dare spazio a vari tipi di scelta. La ricerca di altri aspetti dell’esperienza identificata nella donna ha fornito un principio di intelligibilità per la comprensione di forme così diverse come quella delle beghine nelle città medievali del XII-XV secolo, delle donne cinesi che durante la Rivoluzione culturale organizzarono scioperi femminili per opporsi al matrimonio, delle suffragiste, di Emily Dickinson, di Saffo e di altre. Continua a essere un paradigma importante per gli studi femministi sulla storia delle lesbiche e delle donne.
Questa tattica analitica fornisce alle lesbiche e alle altre donne identificate donne un’esistenza culturale e politica che non si limiti a una sessualità genitalmente organizzata né venga sussunta dall’epistemologia scientifica sessuale come una variante femminile dell’omosessualità maschile. Rich scrive:
Ritengo che l’esperienza lesbica sia, come la maternità, un’esperienza profondamente femminile con specifiche forme di oppressione, con significati e potenzialità che non saremo in grado di comprendere se continueremo ad omologarla ad altre forme stigmatizzate di esistenza. Così come la frase “allevamento dei figli” [parenting] serve a nascondere la realtà particolare e significativa che il genitore [parent] che alleva è di fatto la madre, così il termine “gay” serve a confondere i contorni che dovremmo invece avere ben delineati e che sono di importanza vitale per il femminismo e per la libertà delle donne come gruppo.
Il modo in cui viene definita la soggettività omosessuale e le sue particolari forme di appartenenza collettiva non è una questione neutra o priva di problemi. Anche gli inquadramenti storici e teorici più sofisticati del problema sono pieni di interpretazioni conflittuali e contraddittorie. Un approccio teorico critico potrebbe riconcepire l’“omosessualità” come una categoria di pensiero immanentemente sociale, capace di evidenziare una serie di contraddizioni che appartengono ai processi storici in cui le relazioni più antiche, parzialmente socializzate per la riproduzione apparentemente organica della vita familiare, sono state completamente o in parte dissolte per consentire l’espansione delle relazioni sociali capitalistiche.