Non si parte per Marte: l’etica del compost è terrestre
Pubblichiamo come estratto l’introduzione all’ Eva virale. La vita oltre i confini di specie, genere, nazione di Angela Balzano come antidoto al pinkwashing dell’operazione Blue Origin, ricordando insieme a lei che cyborgfemminista “non è chi chiede per sé un posto sullo shuttle, ma chi lotta ogni giorno perché tecnologie molto più modeste siano alla portata di ogni persona, chi le impiega per la salute terrestre”.
Come in un viaggio nel tempo
È andato tutto distrutto
Ci hanno messo in ginocchio amore mio
Vai provaci tu
Qua resto io
La meglio gioventù
Margherita Vicario
Sul Pianeta Terra c’è un fiore che profuma di miele e sa di senape, cresce lato mare e faccia al sole, spacca gradini e narici anche se misura pochi centimetri. Lo osservo sbucare dai tombini e inerpicarsi sui muri, pare quasi accolga indifferente plastiche e vari rifiuti umani tra i suoi minuscoli steli. Salgo verso Capo Milazzo e il suo bianco mi riempie gli occhi, a ogni passo penso che la sua non è resilienza, è r/esistenza, e come ogni r/esistenza per rimanere in essere, per durare, necessita di altre esistenze disposte a cooperare.
La lobularia maritima persevera nel suo desiderio di essere, ma non tutti gli incontri che fa sono virtuosi in senso spinozista, alcuni possono causare una diminuzione della sua potenza. E del resto lei, come noi, vive i giorni del riscaldamento globale e della sesta estinzione di massa, anche se non ne è di certo causa. E forse la lobularia maritima non ha il polso degli indicatori umani, non padroneggia statistiche e previsioni né ricorda i nomi delle ere geologiche; più saggiamente, se ne sta qui a spaccare il cemento fin quando qui ci saranno le condizioni di possibilità per farlo. Noi – che nel sistema solare ci riteniamo l’unica forma di vita a meritare l’appellativo di sapiens – sappiamo invece benissimo che nel giro di un centinaio di anni le sue condizioni di possibilità evaporeranno a causa nostra1. Di fronte a questa consapevolezza cosa facciamo? Invertiamo la rotta, optiamo per la decrescita riproduttiva (Balzano 2021)? O ci lasciamo sedurre da una manciata di affaristi suprematisti che intende esportare proprio il sistema ri/produttivo capitalista, che ci ha portato alla devastazione ecosistemica, su Marte?
Figura 1. Lobularia maritima con plastica, Milazzo (ME), 2022.
Sul Pianeta Marte c’è un fiore giallo paglia che vince il deserto, o forse non è un fiore ma è roccia su roccia e gli scienziati dietro l’occhio di Curiosity vogliono proprio trovare l’acqua. Sul pianeta Marte 4 miliardi di anni fa ci sono stati i nanobatteri, fiori non sembra ce ne siano mai stati e oggi sono di sicuro più numerosi i Rover della Nasa2. Marte è un pianeta del sistema solare interno e forse dentro, molto in profondità, c’è la presenza di qualche cubetto di ghiaccio. È anche vero che le tecnoscienze della vita grazie a gene editing e clonazione, biobag ed ectogenesi3, possono rendere la gestazione di molte forme di vita tanto facile da ridurre la sua gestione a una pratica di routine.
Non è fantascienza in programmazione cinematografica, la terraformazione è nei piani trentennali di USA, Europa, Russia, India. Mentre scrivo la Cina ha annunciato al mondo che con la missione Earth 2.0 entro il 2026 lancerà navicelle e satelliti ben oltre Marte, alla ricerca di una super Terra oltre il sistema solare. La fattibilità sul medio periodo di un simile programma spaziale non è per me in discussione come non lo è il fascino che il viaggio nel cielo stellato esercita da sempre. Tuttavia metto in discussione la sua motivazione, perché alle mie orecchie terraformazione suona ancora come colonizzazione. Non riesco a dirmi tanto tecnofila da congedarmi su due piedi dal felice caso che ha voluto che a un così dolce profumo fosse associato un sapore tanto piccante. Per la lobularia maritima c’è spazio su Marte? O qualcuno chiederà “a che ci serve?”.
Passione per le inflorescenze molecolari a parte, questi interrogativi servono a chiarire la posta in gioco. Già sul Pianeta Terra la posta in gioco è la gestione di vita e morte, ma qui le variabili sono molte e le relazioni aperte. Lì, nello Spazio Esterno, la codificazione parte dal livello zero e la programmabilità ambisce a essere totale, le variabili devono essere pre-impostate e il sistema richiudibile su stesso a ogni insorgere della devianza. Il governo interstellare è bio-ingegneristico o purtroppo semplicemente non è. Chi si sta lasciando sedurre dalla gender equality4 su Marte dovrebbe rifletterci: su Marte si tratterà di riprodurre la vita – non solo umana – e non ci sono grandi ragioni al momento per credere che verrà fatto in senso trans/ecofemminista. Certo, è molto cyborg lo scenario terraforming, ma cyborgfemminista non è per me chi chiede per sé un posto sullo shuttle, ma chi lotta ogni giorno perché tecnologie molto più modeste siano alla portata di ogni persona, chi le impiega per la salute terrestre. Voleremo alla volta di Marte, ma chi deciderà chi volerà e come vivrà ce lo stiamo chiedendo? Con quali materie prime costruiremo gli shuttle, quale manodopera li assemblerà? E l’humus della terraformazione da dove verrà se non dalla Terra in inattesa ma veloce desertificazione?
Ma ancora prima, la domanda alla radice: desideriamo partire per Marte? Si tratta davvero di desiderio? O siamo al cospetto di un bisogno egoistico indotto dalla paura della fine imminente, molto simile al bisogno di immortalità di cui sono intrise le culture a matrice cristiana?
Il (bi)sogno di trascendenza non anima queste pagine, se non come bersaglio della critica. La vita non sarà migliore né su Marte né in Paradiso se non riusciamo a renderla vivibile qui e ora per tutte/i, perciò questo libro è mosso da un solo desiderio, quello di immanenza. Partiamo dunque dal desiderio inteso come sforzo di rimanere in essere insieme hic et nunc, dalla tensione a cospirare: la stessa tensione che muove alghe e funghi a respirare insieme e divenir lichene. Il primo capitolo sarà perciò un’escursione nel senso etimologico del termine, un correre fuori dai recinti costituiti dall’antropomorfismo e dall’androcentrismo, un uscire all’aria aperta per prendere una boccata di ossigeno insieme.
Non si parte per Marte senza rileggere l’Etica di Spinoza in chiave eco/trans/cyborgfemminista, senza aver compreso cosa ci rende soggetti tanto auto&antropocentrati incapaci di leggersi come parti, alla pari di altre, di questa naturacultura. La prima idea della nostra etica sarà dunque il corpo/compost. Il compost “è il prodotto del lavoro di funghi, batteri, vermi in intra-azione” 5, è quel miscuglio che compone e decompone la materia organica e non di cui su questa Terra son fatti anche i nostri corpi. Proveremo a leggere il compost in chiave cyborg&ecofem e a nominarlo da subito al plurale e al molecolare: i corpuscoli che fanno compost o, come diceva Margulis, i cianobatteri che costruiscono il mondo. Cosa possono e cosa possiamo noi insieme a loro? Cosa significa potenza transpecie e perché sia l’eretico sia i maestri Jedi hanno qualcosa da dirci sui desideri sovversivi che possiamo esprimere quando ci alleiamo al non-umano?
Dopo tutto, in una lotta interstellare bisogna scegliere da che parte stare, saper tessere alleanze è cruciale. Non volendoci rassegnare né alla terraformazione né all’estinzione, ci resta la possibilità di comporre insieme un’altra narrazione. La possibilità di drizzare le orecchie per carpire bene le voci che porta con sé il vento qui su al Capo, mentre cerco di memorizzare i nomi delle piante endemiche e distinguo la voce di Beatrix Potter, che dal XIX secolo arriva fino a noi per suggerirci che i licheni sono compost(i) di due organismi che scelgono di vivere in simbiosi. Peccato che la sua intuizione, come la sua passione per biologia e geologia, non siano state riconosciute dalla “comunità scientifica istituzionale”6. Beatrix Potter prima, Lynn Margulis poi: la molteplice lotta ne e contro la scienza che determina il mondo come lo conosciamo è attraversata, spesso tristemente determinata, da linee di sesso e genere7.
La biologia e più in generale le tecnoscienze sono giganteschi casi di mansplaining e anche di bro-appropriation8, di invisibilizzazione e svalutazione del lavoro di donne la cui opera può oggi aiutarci a respirare in questo mondo di guai. Il secondo capitolo sarà allora un’immersione, rimarremo a volte in apnea ma ne varrà la pena: sott’acqua incontreremo una biologia e delle tecnoscienze che non sono mansplaining. Saranno una Lynn Margulis e una Lise Meitner da (a)mare, sarà un po’ come farla finita con DNA e guerra nucleare. Vedremo come quest’aggettivo, nucleare, si accompagni tristemente a istituzioni e dispositivi bio&necropolitici che ci converrebbe far saltare per la comune sopravvivenza. Nucleare è la famiglia eterosessuale (e il suo DNA!) base di Stato&capitale, nucleare è la minaccia che gli Stati agitano gli uni contro gli altri dalla seconda metà del XX sec. a oggi. Con Lise Meitner – che per prima spiegò la fissione nucleare e decisa rifiutò di collaborare al Progetto Manhattan, che aveva perso la testa per gli atomi ma non per la bomba, che scelse di non sposarsi e non formò mai una famiglia nucleare – ci diciamo oggi contro la guerra Russia-Ucraina, contro ogni conflitto armato, per la Palestina libera. Con Lynn Margulis, che si separò due volte affermando che il lavoro di moglie non si addiceva a quello di scienziata, ci diciamo a favore di una sola fusione: quella simbiotico-mutualistica. L’eredità genetica nucleare legata a doppia mandata alla modalità di riproduzione eterosessuale dell’umano potrà se vuole andarsene su Marte, noi restiamo sul Pianeta Terra, felici del fatto che ancora oggi è abitato più da virus e batteri. E chissà magari qui sulla Terra con l’ausilio delle nuove tecnologie riproduttive ci (e lo) faremo sempre più strane, capaci di partenogenesi ed ectogenesi, di simbiosi mutualistiche e ibridazioni orizzontali transpecie.
L’Eva virale e l’Eva mitocondriale sono le figurazioni che ci accompagneranno verso la messa a punto di un’etica compostista per farla finita con il nucleare. E qui le metafore stanno a zero, perché siamo tutte Eve virali e abbiamo tutte del DNA mitocondriale in corpo. Questa per me è biologia eco/cyborg/transfemminista, meglio ancora questa è un’etica more biologico demonstrata che fa implodere ogni pretesa universalistica delle scienze della vita in connubio con fallocentrismo e neoliberismo. Non “la verità” della biologia occidentale e androcentrica né la sua messa a valore nei circuiti globali del biocapitale, ma la parzialità di una filosofia femminista e materialista che può “pensare la vita” solo radicandosi nei corpi più minuti e periferici per adottare il loro punto di vista, per dimostrare che la civiltà del sapiens si erige su un mondo costruito da batteri e virus e che la sua ragione si è sviluppata sull’esclusione dell’intuizione e della passione di troppe altre.
Nessuno sa cosa il DNA mitocondriale può in potenza, né quanto hanno contato i virus nel nostro divenire mammiferi. Già qui per la nostra etica c’è una prima certezza: tutto è compost agitato da batteri e virus su questa terra. E per la nostra etica qui c’è una prima pratica: muoversi su queste terre con modestia e una certa lentezza, respirare con calma ma soprattutto respirare con. Ci proveremo dal terzo al quinto capitolo – tra diatomee sulla luna, cyborg, balene, fotosintesi umana e scarpette rosse – a emergere per respirare insieme9.
Il terzo capitolo sarà costellato di emersioni: tutto un venir a galla di modalità di riproduzione e cura alquanto bizzarre che ci auguriamo possano evitare che tra i mammiferi sopravvivano solo bovini-ovini-suini destinati agli allevamenti industriali. Abbiamo parenti mammiferi anche nei mari e negli oceani, e se è vero che al capodoglio SiSo il Mediterraneo a colazione serviva plastica, temo per lui e per tutte le nostre cugine megattere non siano sufficienti i cubetti di ghiaccio (forse) custoditi nel ventre di Marte.
Una volta emerse non ci resta che passeggiare schizofrenicamente10, come suggerivano Deleuze e Guattari, non ci resta cioè che camminare e cercare la relazione nell’andirivieni degli incontri. In queste passeggiate le domande che si faranno strada dalle gambe al cuorepiùcervello riguarderanno la possibilità di darci una misura comune infra-umana, in particolare in occidente, che ci faccia vivere con le altre specie e non su di loro. Ci chiederemo se la crio-conservazione in attesa della colonizzazione di Marte è tecnoscienza accessibile a tutte/i, in senso transpecie, o ancora una volta è tecnoscienza androcentrica a vantaggio di pochi multimilionari. Portare il processo a compimento vuol dire per me scartare le soluzioni della tecnoscienza capitalista laddove non sono vantaggiose in senso transpecie: non solo no crio-conservazione, ma anche basta con gli allevamenti intensivi, possiamo immaginare e praticare una rivoluzione nella riproduzione. Passeggiando ancora lungo la riva incontreremo le diatomee, quelle favolose alghette unicellulari produttrici di ossigeno e garanzia di simpoiesi che hanno tanto da raccontare su una possibile rivoluzione nella riproduzione. Le diatomee hanno imparato insieme a darsi una misura, ad accordare la loro riproduzione alla rigenerazione della Terra, il loro modo di decrescere ma sempre r/esistere potrebbe umilmente ispirarci?
Forse si o forse no, intanto, come scopriremo durante i viaggi interstellari del capitolo quinto, le diatomee c’è già chi vuole usarle per la terraformazione. Un capolavoro del cinismo sapiens: prima causiamo la dissolvenza delle diatomee con riscaldamento e acidificazione delle acque, prima le imballiamo di microplastiche in modo che fatichino a stoccare carbonio, poi chiediamo loro di aprire la via della vita su un altro pianeta. Proiettati al consumo non solo di questo mondo ma dell’Universo, estraiamo dai suoli che calpestiamo sostanze che facciamo diventare veleno per noi e per il non-umano: dal petrolio vengono i rifiuti che uccidono le balene e anche le plastiche nelle diatomee e nelle placente umane. Ora si aprono le scommesse per capire con cosa (ci) avveleneremo (su) Marte. I razzi lanciati nello spazio nella promessa di un altrove eterno veicolano l’unica certezza di ritorcercisi contro, piovendoci addosso e divenendo solo detriti incompostabili (ho in mente l’iconica foto di Jonas Bendiksen, Detriti di un lanciatore caduti nelle steppe russe).
Non sono una naïve e non desidero l’estinzione, mi pare sia più suicida la postura transumanista extraterrestrialista che differisce la vita in un già accelerato futuro mentre al presente non fa che divorarla egoisticamente. Io desidero sopravvivere con, respirare insieme all’umano e al non-umano su questa Terra senza dover indossare caschi per colonizzare altri pianeti o maschere per non soccombere, su questo, all’inquinamento atmosferico. Lo scrive del resto benissimo Giardini: già ora viviamo in “bolle totalmente antropizzate, senza più alcun fuori”11. Per questo mi trovo a scrivere un’etica del compost che tiene insieme passato-presente-futuro, che fa saltare la congiunzione per muoversi sull’unica spaziotemporalità abitabile con modestia: quella della relazione, che sempre tesse tra pre e post ricami intricati.
Per questo mi trovo a scrivere un’etica del compost che tiene insieme passatopresentefuturo, che fa saltare la congiunzione per muoversi sull’unica spaziotemporalità abitabile con modestia: quella della relazione, che sempre tesse tra pre e post ricami intricati.
Faremo forse compost in ventri di plastica e come yogurt avremo una precisa data di scadenza se continuiamo ad alimentare con il sistema ri/produttivo capitalista il Pacific Trash Vortex12, o faremo forse alleanze con funghi e batteri per decomporlo e sceglieremo noi di alimentarci in modo diverso, magari facendola finita con le monoporzioni di pollo agli idrocarburi e con i salumi sottovuoto. Mentre scrivo questo libro in molti hanno già affermato di propendere per la prima ipotesi, altre/i hanno ribadito che in fondo ogni preoccupazione è antropocentrica, perché la Terra nel suo insieme ci sopravvivrà a lungo. Io insisto e chiedo: questo ci autorizza a sfruttare sino all’estinzione l’esistente? Ancora: da cosa deduciamo che l’animale umano se la caverà bene senza tutte le specie che hic et nunc ne garantiscono la rigenerazione? Davvero vogliamo correre verso un Pianeta in cui saremo soli a rimpiangere quello che abbiamo distrutto per poi sforzarci a ricreare le condizioni per riprodurlo?
Sembra quasi che siamo così poco disposti a sovvertire il sistema ri/produttivo capitalista che preferiamo proiettare Jurassik Park su Marte. Temiamo di perdere il nostro privilegio di specie, per questo invece di dotarci di un’etica del compost che ci permetta di respirare tra i guai preferiamo respirare sotto vuoto tentando la colonizzazione dello spazio. Eppure non abbiamo mai detto che etica del compost significasse fine dell’umano13, che simbiosi mutualista volesse dire sacrificio di una specie per un’altra, o che simpoiesi significasse dare senza ricevere: le specie compagne si scambiano benefici e tra licheni i conti pare tornino senza ricorrere ai ricatti del debito. Non c’è ragione per credere che la fine del privilegio dell’umano coincida con la sua estinzione, vedremo che è vero semmai il contrario: suprematismo e capitalismo viaggiano insieme e innescano cortocircuiti letali per l’umano stesso. Infatti, del sistema ri/produttivo capitalista diciamo chiaramente che si basa sul depredare a senso unico chiunque non coincida con l’uomo bianco occidentale. Al sistema riproduttivo capitalista va esplicitamente ascritta la devastazione ecosistemica che, dilagando, sembra non lasciarci altra scelta tra la colonizzazione dell’extraterrestre e il consumo di ciò che resta, fino alla fine della Terra. Chi scrive è tuttavia convinta che la parola fine potremmo scriverla prima di capitale: la fine del capitale per la sopravvivenza terrestre.
Questo libro non potrà tanto, ma il desiderio di chi lo scrive è questo: immaginare un’etica del compost per la salute planetaria e contro la crescita illimitata del capitale, una politica che trovi un post(o) per l’umano nell’humus da cui veniamo.
1 In alcuni luoghi del pianeta bruceranno, in altre geleranno, sta di fatto che già nei prossimi cento anni: “per colpa delle nostre azioni la Terra di certo diventerà più calda, il ghiaccio certamente si scioglierà e il livello degli oceani certamente si alzerà” (Hazen, R. M., Breve storia della terra, il Saggiatore, Milano 2017, p. 400).
2 Il carbonio 12 è stato trovato nei campioni di roccia prelevati nel cratere Gale da Curiosity, rover della Nasa atterrato su Marte nel 2012: si pensa sia eredità di antichi batteri che rilasciando metano in atmosfera avrebbero permesso alla luce ultravioletta di trasformarlo in molecole più complesse poi innestatesi nelle rocce. Dal sito della Nasa è possibile apprendere che sul Pianeta rosso oggi ci sono 23 “missioni USA” con altrettanti rover, lander e orbiter. https://mars.nasa.gov/mars-exploration/timeline/
Per inciso, se non fosse chiaro l’intento nazionalista e neocolonialista statunitense, la NASA ci tiene a specificare che su Marte bisogna andarci perché: “in senso strategico l’esplorazione di Marte dimostra l’egemonia politico-economica della nostra nazione”. https://mars.nasa.gov/#mars_exploration_program/3
3 L’ectogenesi, su cui ho scritto più diffusamente in Per farla finita con la famiglia (Balzano, Meltemi, 2021), è già tecnicamente fattibile, sono le normative internazionali ad aver bloccato il proseguire delle ricerche. Diversi gruppi di ricerca sono riusciti a far sopravvivere un embrione umano fuori dal corpo materno per tredici giorni e si sono fermati solo per il divieto riconosciuto quasi ovunque a livello mondiale dei 14 giorni. Il risultato più interessante di queste ricerche consisterebbe nella scoperta delle capacità autorganizzative dell’embrione (Degli Incerti et al., Self-organization of the in vitro attached human embryo, in “Nature”, n. 533, pp. 251-254, 2016; Shahbazi et al., Self-organization of the human embryo in the absence of maternal tissues, in “Nature Cell Biology”, n. 18, pp. 700-708, 2016). Dunque si, la biobag, l’incubatrice-tecnologia vivente che può sostituirsi alle nostre pance, esiste.
4 La gender equality, da tradurre con “uguaglianza di genere” e non con “pari opportunità”, resta per la sottoscritta una casella da barrare del politicamente corretto: a chi dovremmo essere uguali? Al soggetto del privilegio? Tante donne quanti uomini nei luoghi del potere e del profitto? E questo sarebbe femminismo? Bene allora qui faremo del transfemminismo riottoso, non solo il binarismo lo lasciamo ai pc ma anche e soprattutto i luoghi del potere e del profitto li vogliamo sovvertire o vedere estinti, non riprodotti in giro per la galassia. Per approfondire sul punto si legga la Braidotti del terzo volume del Postumano, in particolare il paragrafo “Femminismo intergalattico”, in cui magistralmente afferma: “Se le mobilitazioni femministe non continuano su questo pianeta, allora il progetto di esplorazione dello spazio potrà anche diventare intergalattico, ma resterà tanto patriarcale quanto il sistema con cui già conviviamo. E l’esperienza di vita marziana e spaziale sarà di una noia mortale” (Braidotti, R., Il postumano. Femminismo, DeriveApprodi, Roma 2023, p. 299).
5 Ferrante, A. A., Cosa può un compost? Fare con le ecologie femministe e queer, Luca Sossella Editore, Roma 2022, p. 9.
6 Plant, S., Zero Uno. Donne digitali e tecnocultura, Luiss University Press, 2021, p. 284.
7 Anche da rapporti di forza legati alla classe e ai processi di razzializzazione, qui ci limitiamo a sesso e genere semplicemente perché riteniamo con la Haraway di Testimone modesta (2000) che nessuna può fare da sola tutti i tipi di ricerca, la letteratura sarebbe infinita, qui rimandiamo per gli studi su tecnoscienza, genere e razza al lavoro di Benjamin, R., Race After Technology, Polity Press, Cambridge 2019.
8 In Per farla finita con la famiglia scrivevo: “La biologia è un gigantesco caso di mansplaining: gli uomini che ci spiegano come siamo fatte” (p. 28). Prendevo in prestito il termine dal linguaggio comune, perché da quando Solnit lo ha impiegato come titolo di un suo libro si è diffuso notevolmente, finendo per indicare il paternalismo “degli uomini che ti spiegano le cose”, che sono cioè soggetti parlanti e attivi più esperti delle donne, presunti soggetti ricettivi passivi (si veda di Rebecca Solnit, Gli Uomini mi spiegano le cose, Ponte alle Grazie, 2017). Più in generale si potrebbe affermare che le scienze siano a oggi fatte per la maggior parte da uomini e non si avrebbe torto, solo si correrebbe il rischio di non denunciare i casi di appropriazione maschile dei saperi prodotti dalle donne, cioè la bro-appropriation: due problemi concomitanti e attuali. Per me vale sempre la pena ricordare herstory come quella di Rosalind Franklin: Watson e Crick svilupparono il modello chimico della molecola del DNA e per questo ricevettero il Nobel grazie alle sue foto, foto di cui si appropriarono indebitamente. Non solo le donne hanno sempre fatto fatica a essere quantitativamente e qualitativamente presenti, ma quando presenti e combattive, sono state combattute e invisibilizzate. Qui si intende non cadere nell’errore di invisibilizzare limitandosi a denunciare la scienza al maschile (mia personale traduzione di mansplaining), si desidera dare il giusto posto al contributo scientifico di donne e persone lgbtqi+ per rivalutarlo politicamente. Anche per questa ragione nel libro non adotto il maschile sovraesteso, preteso universale, uso il maschile per designare per lo più i soggetti del privilegio e dell’assoggettamento, i sapiens, i maschi-cis et di solito occidentali che hanno appunto imposto il loro particolare corpo/punto di vista come universale e che pretendono – anche questa è una delle sfumature della violenza patriarcale – che altri corpi/punti di vista vengano neutralizzati e occultati in una lingua che non li nomina, non li legge e non li ascolta. Nella consapevolezza che l’asterisco e altre soluzioni simili possono porre problemi di leggibilità e accesso, il femminile plurale è qui la mia scelta, anche se so già che i movimenti transfemministi troveranno nuove soluzioni sempre migliori (ringrazio Valentina Greco per il confronto e gli approfondimenti).
9 “La portata del nostro respiro è globale” scrive Gumbs e io concordo: le mammifere marine sono “maestre, mentori e guide”, da loro possiamo imparare a emergere per respirare insieme, cioè per cospirare (Alexis Pauline Gumbs, Undrowned. Lezioni di femminismo nero dai mammiferi marini, Timeo, Roma 2023, p. 10).
10 Rileggere i malesseri psico-somatici delle società a capitalismo avanzato in chiave poststrutturalista promette mostruosamente un concetto di salute transpecie. Per Deleuze e Guattari “la passeggiata dello schizofrenico” è “un modello migliore di quello del nevrotico steso sul divano”. Invece di chiuderle nella stanza del privato, la schizoanalisi libera le persone aprendole agli incontri non familisti. La persona schizofrenica desidera e deve passeggiare, perché la passeggiata è “un po’ d’aria aperta, una relazione con l’esterno” (Deleuze, G., Guattari, F., l’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002, p. 3). Ai fini del quarto capitolo, la connessione che Deleuze e Guattari creano subito tra la passeggiata schizofrenica e la possibilità di sottrarsi alla dicotomia uomo-natura e di vivere la natura come processo di produzione, è stata fonte di potente ispirazione filosofico-politica.
11 F. Giardini, Cosmopolitiche. Ripensare la politica a partire dal kosmos, in “B@BELONLINE.PRINT”, vol. 13, 2013, pp. 147-163, p. 153.
12 È l’isola di plastica dell’Oceano Pacifico, in questo senso si può dire che i sapiens la terraformazione la abbiano già fatta qui con i loro rifiuti incompostabili. Si dice sia grande quanto gli Stati Uniti, che del resto per il loro uso smodato della plastica sono tra i principali paesi a contribuire al suo espandersi insieme al Giappone: si pesano 3 milioni di tonnellate di plastica, lì in mezzo al Pacifico. E non è l’unico Trash Vortex, ce ne è un altro nell’Atlantico, un altro nel Mediterraneo. Vedremo meglio nel terzo capitolo gli effetti di questo plastificarsi oceanico.
13 Lo spiega benissimo Timeto: “il femminismo harawaiano indica che il dopo dell’umano come paradigma di lettura del mondo non consiste affatto nella fuga dall’umano, quanto nel suo radicamento, un vero e proprio innestarsi, ibridarsi, conficcarsi tra e negli interstizi del para-umano, nella proliferazione simbiotica e humida dei viventi, allo stesso tempo concreta e potentemente immaginifica” (Timeto, F., Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie, Mimesis, Milano 2020, p. 213).