Etica Hacker alla Colibrì
Presentazione del volume
Etica Hacker e Anarco-capitalismo
Edizioni Milieu
Introduce Maresa Lippolis (Naba)
Che cos’è l’anarcocapitalismo? Come si relaziona con le tecnologie digitali?
Un vademecum per ricordare che la tecnica non è mai neutra, apre delle possibilità e per questo ci mette sempre di fronte al nostro rapporto con il potere. E al rischio di stabilire un dominio, sugli altri e su di noi. Maresa Lippolis Gruppo Ippolita
Questo agile volume raccoglie alcune riflessioni a cui si è dedicato il gruppo Ippolita negli ultimi anni, in parte inedite e in parte uscite in versione ridotta su riviste, blog e quotidiani, rielaborate per questo libro che può servire all’occorrenza come strumento di analisi delle trasformazioni dell’era digitale e al tempo stesso come strumento di sovversione.
Si parte da una analisi sulla storia dei libertariani, per arrivare ad affrontare i temi più attuali: social network, Big Data, motori di ricerca, monete digitali.
Un volume agile e indispensabile per districarsi nel mondo della rete.
Egemonia linguistica e logica di mercato: l’assalto delle corporazioni alla «free culture»
Nell’ultimo decennio abbiamo visto il proliferare di parole e concetti che contengono l’aggettivo open- (aperto): «open content», «open data», «open access», «open document», «open government» e così via. Queste locuzioni derivano dalla dicitura Open Source Software: software a codice sorgente aperto, che per comodità definiremo qui anche con l’acronimo di OSS. Da un contesto strettamente legato allo sviluppo di applicativi, la parola open è stata estesa a campi semantici diversi creando non poche ambiguità.
Origine dell’Open Source Software
L’espressione Open Source Software è stata coniata tra il 1997 e il 1998 da un gruppo di informatici capitanati da Bruce Perens e Eric Raymond per differenziarsi dalla locuzione Free Software (software libero, FS), inventata dal ricercatore del MIT (Massachusset Institute of Technology, Boston) e hacker Richard Matthew Stallman tra il 1984 e il 1985. Prima infatti venne il software libero, che era anche un movimento politico, poi venne l’Open Source che inaugurò la relazione delle comunità libere con i mercati tecnologici. In pratica rielaborandone la narrazione, come spiega Michael Tiemann, attualmente presidente della Open Source Initiative:
«Il termine Open Source si posizionava in modo amichevole e sensibile nei confronti del mondo imprenditoriale, mentre Free Software voleva essere moralmente corretto. Nel bene e nel male, ritenemmo più vantaggioso allinearci con quanti optarono per Open Source.»
Perciò ogni volta che incontriamo l’attributo «open» in locuzioni che afferiscono alle nuove tecnologie dobbiamo tenere conto che, accanto a un significato più generico di apertura significa anche «essere amichevoli con le imprese commerciali».
Open Source e Free Software: affinità e divergenze
I due termini Open Source e Free Software sono, per così dire, «diversamente simili» e nient’affatto sinonimi. Indicano entrambi particolari formule di resa pubblica del codice sorgente, ma sono ideologicamente diversi, sebbene la distanza non sia di metodo bensì di principio. L’idea dietro al concetto di software libero è che un programma informatico debba essere considerato alla stregua di una formula matematica o di una scoperta scientifica, un bene comune che tutti possano studiare e migliorare secondo le proprie necessità, come sancito dalle «quattro libertà fondamentali».[2] Il punto di vista dell’Open Source, invece, è utilitarista: il fatto di rendere pubblico e pubblicamente modificabile il codice sorgente è semplicemente il modo migliore di sviluppare software. Grazie a un approccio collaborativo i programmi diventano più sicuri, più efficienti e si diluiscono i costi di mantenimento e del porting su piattaforme diverse.
Fin dalla nascita della Free Software Foundation (FSF), l’espressione legale dei principi del Free Software è stata la licenza GNU/GPL (GNU General Public Licence, oggi alla sua terza versione)[3], la cui caratteristica più rivoluzionaria risiede nella sua «viralità», garantita dall’imposizione di mantenere la medesima licenza per qualunque copia, anche modificata, del software in questione. La GPL non proibisce la commercializzazione del software, anche se, indirettamente, impone di escogitare modelli di business differenti, generalmente che non considerino il software come un prodotto commerciale, ma come un artefatto culturale.
Continua la lettura su NOT
Mercoledi 27 Marzo,
h 19.30
Caffé Colibrì
via Laghetto 9/11, Milano