Angela Balzano e Valentina Greco. Il Noi politico dell’IVG

Un estratto dal volume di Pauline Harmange Aborto. Il personale è politico. La prefazione di Angela Balzano e Valentina Greco Il noi politico dell’IVG

Angela Balzano e Valentina Greco. Il noi politico dell’IVG.

Abbiamo sempre abortito e sempre abortiremo.

A quando risale questo slogan? Forse agli anni in cui le nostre madri/zie/nonne imparavano a dirsi femministe, i Settanta del XX secolo.

Abbiamo sempre abortito e sempre abortiremo.

Da dove viene questo slogan? Forse da ogni dove si è fatto forte di femminismi che hanno saputo agire valicando confini e ancora oggi risuona nelle nostre piazze. In questo libro, lo troverete sottotesto in ogni pagina, striscerà sino a esplodere nella sua dirompente verità: l’aborto accade da sempre, ma non da sempre e non ovunque è circoscrivibile nel recinto di una scelta personale che non ha nulla di collettivo, men che meno di politico.

Il passaggio fondamentale è dall’io al noi: noi abbiamo sempre abortito, non Valentina e Angela, non Pauline Harmange da sola.

Lottiamo per l’accesso all’aborto libero-sicuro-gratuito perché lottiamo per la giustizia riproduttiva. Pauline Harmange con il racconto personale del suo aborto ci aiuta a raggiugere il nostro politico:

Sto parlando della giustizia riproduttiva. Questa lotta per la giustizia sociale non è solo una lotta per il diritto all’IVG. Si tratta anche di battersi affinché i genitori possano prendersi cura dei figli per tutto il tempo necessario, in modo che chiunque desideri figli possa averli o farli, nelle migliori condizioni possibili. Non è forse un progetto sociale ambizioso ed entusiasmante?1

Noi che abbiamo sempre abortito e sempre abortiremo vogliamo giustizia riproduttiva e oggi, nel rivendicare accesso a IVG e contraccezione, abbiamo imparato a rivendicare accesso alla genitorialità in mondi non intossicati dal tecnocapitalismo e in relazioni non eterosessuali non monogamiche. La giustizia riproduttiva complica il quadro, ma è necessario farlo, è necessario aprire, spacchettare il denso inciso di Harmange proprio per superare le criticità che lei stessa denuncia, proprio per ritrovare e portare con noi in questo “progetto sociale ambizioso ed entusiasmante” tutte le altre persone che, con studi e lotte, hanno contribuito a definire l’orizzonte transfemminista e transnazionale della giustizia riproduttiva. Non parleremmo noi oggi di giustizia riproduttiva, infatti, se il bisogno di abbandonare il piano dei “diritti riproduttivi” e di passare a quello della “giustizia riproduttiva” non fosse stato avvertito in primis dalle Women of Color (così si definiscono le SisterSong2) e dai movimenti LGBTQ+ negli anni Novanta del XX sec: la necessità era quella di riportare l’autodeterminazione al livello della persona relazionandola alle sue comunità/culture di appartenenza, di strapparla alle corti e ai parlamenti, di cogliere le intersezioni tra accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva e razza e classe, superando i limiti dei femminismi bianchi. Per molte autrici i femminismi bianchi si sono a lungo attestati sul solo “diritto di scelta” 3, tuttavia questo diritto di scelta rimanda alla morale individualista, alla soluzione giuridico-medica privata del problema e, inevitabilmente, al privilegio. Ne è consapevole la stessa Harmange che, nel titolo originale francese, affianca alla parola “scelta” l’aggettivo “politica”, non “personale”, insistendo sul fatto che le ragioni di ogni aborto sono sì singolari ma sempre interrelate alle condizioni politico-economiche e socioculturali. Poco prima di affermare che la lotta per l’aborto libero-sicuro-gratuito si iscrive nella rivendicazione di una più ampia giustizia riproduttiva Harmange ci chiede infatti:

Quando gli antiabortisti vogliono che bambini e bambine vengano al mondo indipendentemente dal contesto in cui cresceranno – economico ma anche emotivo – a chi stanno rendendo un servizio? Nell’interesse della società, non preferiremmo forse che tutt3 nascessero nel miglior ambiente possibile per affrontare la vita?4

Ed eccolo qui il portato della giustizia riproduttiva condensato in poche righe. Se l’accesso all’aborto ci è negato/ostacolato in nome di un pretestuoso diritto alla vita dell’embrione ma le condizioni di vita sul pianeta Terra sono fortemente minate dallo stesso fronte neofondamentalista/neoliberista/antiambientalista che ci sottrae autodeterminazione sessuale e riproduttiva, la domanda di Harmange è molto più che lecita e trova, infatti, eco nell’attuale divenire multispecie5 della giustizia riproduttiva. Oggi la giustizia riproduttiva diventa multispecie perché la riproduzione delle persone umane è sempre interrelata a quella degli ecosistemi e delle altre forme di vita che li popolano. Muovendo i suoi passi dalla “giustizia riproduttiva ambientale”6, la giustizia riproduttiva multispecie non riguarda solo i modi in cui riscaldamento globale e inquinamento impattano sulla salute sessuale umana, ma si spinge sino a ribaltare la prospettiva con postura postantropocentrica, chiedendosi in che modo la riproduzione umana, oggi perseguita quasi globalmente tramite il sistema ri/produttivo capitalista, impatti sulla vita delle altre specie. Sono molte le femministe oggi impegnate su questi terreni. Gaard sembra porsi nel mezzo, sulla via della trasformazione della giustizia riproduttiva ambientale in multispecie7, mentre la Haraway di When Species Meet8 pare sia stata la prima a usare l’espressione “giustizia multispecie”. Ci sono anche Clarke, Murphy, Tallbear, Benjamin e tutte le altre autrici di Making Kin. Fare parentele non popolazioni, volume collettivo in cui Clarke dichiara sin dall’introduzione “il nostro obiettivo è la giustizia riproduttiva multispecie”9 e in cui Haraway così titola il suo saggio “Fare parentele nello Chthulucene: riprodurre la giustizia multispecie”. Tutto un coro di voci, che certo possono non risuonare nei circuiti neolib della produzione cognitiva, ma che sostengono e offrono validissime argomentazioni a chi tenta di opporre alla vuota retorica della santità della vita umana il pieno accesso a vite qualitativamente pregevoli perché innestate in ecosistemi non devastati dalle politiche della crescita senza limiti del capitale. E questo era del resto già il fulcro della proposta di Zoe Sofia, il cui saggio Feti Sterminatori10 si lega benissimo agli interrogativi sollevati da Harmange. In questo saggio Sofia si chiede come mai il fronte antiabortista non si schieri contro l’impiego bellico del nucleare. Il suo contributo viene direttamente ripreso da Haraway, ma anche Melinda Cooper lavora in questa direzione in La vita come plusvalore11, opera in cui ricostruisce l’articolarsi storico dell’alleanza tra neoliberisti, cristiani antiabortisti e antiambientalisti e dà a questo fronte in odor di fascismo il nome di neofondamentalismo neoliberista. Per mettere a fuoco il dilagare del neofondamentalismo neoliberista pensiamo al governo Trump negli Stati Uniti: il taglio ai fondi federali per le politiche sanitarie riguardanti l’autodeterminazione della sfera riproduttiva (nessun sostegno economico a International Parenthood Planned Federation che garantisce l’accesso sicuro legale e gratuito ad aborto e contraccezione e prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili) ha preceduto di poco il ritiro degli Usa dall’accordo di Parigi sul riscaldamento globale e la chiusura delle frontiere seguita dalla costruzione del muro al confine con il Messico. Nessuna meraviglia se chi afferma di difendere la vita del non-nato non ha cura della vita delle persone già nate e degli ecosistemi in cui crescono. Al fronte neofodamentalista-neoliberista interessa solo la riproduzione della nazione, non certo l’accoglienza delle persone migranti (triste ma necessario ricordare Cutro, ricordare che la Fortezza Europa proprio mentre scriviamo lascia morire in mare persone già vive mentre esorta noi a non abortire). In aggiunta, è economicamente più̀ vantaggioso prendersi cura del non-nato che cambiare il sistema di produzione per rendere il mondo uno «spazio reale» in cui le altre forme di vita non rischino l’estinzione per la sola sopravvivenza della specie Homo Sapiens.

Per questo ci siamo noi, irriducibili al silenzio e all’immobilismo, pronte a difendere l’accesso all’aborto libero-sicuro-gratuito e a rivendicare al contempo un mondo in cui si nasca e si cresca, come scrive Harmange, “nel miglior ambiente possibile per affrontare la vita12.

E qui forse vale la pena spendere due righe per rispondere alla domanda “noi chi?”. Il noi in cui stiamo a nostro agio è il noi dei movimenti transfemministi e dei collettivi e delle associazioni femministe che negli anni hanno tessuto reti e lotte per l’autodeterminazione sessuale e riproduttiva. È così ed è per questo che abbiamo studiato saggi e leggi, per capirci e incontraci in assemblee e cortei oltre i confini geopolitici degli stati-nazione. Il noi delle Socorristas en red13 che in Argentina hanno costruito una forte organizzazione su base nazionale in grado di accompagnare donne e persone che intendono abortire proprio per non lasciare, come Harmange ben ammonisce, che silenzio e isolamento diventino la norma e non l’eccezione nei nostri percorsi di autodeterminazione. Il noi di Women on Wave, oggi divenuta anche Women on Web, una nave e una piattaforma online che offrono sostegno competente e mezzi farmacologici per abortire a coloro che vivono dove è illegale. Il noi dell’autogestione della salute sessuale e riproduttiva che è capace, laddove lo Stato interdice l’accesso all’IVG, di favorire la riappropriazione di saperi e tecniche a partire dai propri corpi e desideri. Un noi in cui siamo immerse, in Italia per felice decisione politica ma anche per triste necessità. Dagli albori delle lotte che hanno portato alla depenalizzazione dell’aborto in Italia, infatti, le femministe sono state qui capaci di aprirsi all’autogestione non limitandosi alla richiesta di normative governative, ma anzi agendo in autonomia spazi in cui potessero essere eseguiti aborti sicuri e gratuiti e potessero essere distribuiti contraccettivi.

Le norme che legiferano su questioni che hanno a che fare con il nesso corpo/genere e che investono il campo della sessualità sono sempre molto restrittive e piene di cavilli deterrenti, perché la norma non è mai astratta, è incarnata e pensa se stessa come bianca, cisgenere, eterosessuale e maschilista.

Basti pensare all’iter della legge 194 in Italia, una storia che racconta un percorso difficile e problematico conclusosi con una legge che già nel suo titolo, “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, denuncia la volontà del legislatore di porre l’accento sulla difesa della funzione sociale materna. È chiaro che l’aborto, in Italia, non dovrà essere un diritto, ma una possibilità da mettere con evidenza in secondo piano.

Nel 1973 viene discusso un primo progetto di legge per la parziale depenalizzazione dell’aborto, presentato dal deputato radicale Loris Fortuna; cinque anni dopo, il 22 maggio 1978, verrà approvata la legge 194 con 308 voti a favore e 275 contrari; nel 1981 si andrà al voto per il referendum abrogativo (con il 67,8% dei voti vincerà il no all’abrogazione)14.

Otto anni per avere una legge che parla esplicitamente dell’interruzione di gravidanza solo al quarto articolo e che poi al nono introduce l’obiezione di coscienza, quella clausola che ha fatto sì che oggi si possa tranquillamente parlare di obiezione di struttura, vista la media nazionale che sfiora il 70% per il personale medico.

E se, da un lato, è vero che è una legge che è stata difesa – anche se fin dall’inizio non aveva avuto il sostegno di grande parte del movimento femminista15, perché avevamo solo quella e il rischio era quello di veder ulteriormente eroso il terreno dei diritti – dall’altro lato, è altrettanto vero che molto femminismo e il transfemminismo queer quella legge l’hanno sempre messa in discussione chiedendo “molto più di 194”.

Oggi, a 45 anni dall’approvazione della l. 194 del 1978, come transfemministe ci diciamo ancora e sempre pronte ad abortire insieme, in autonomia e in sicurezza16.

Grazie a questo noi Pauline Harmange potrebbe ritrovare alcune tra le persone che cercava. Un paragrafo del suo libro ha come titolo proprio la domanda: “Dove sono le donne che hanno abortito”? Harmange non si rassegna all’idea che quella dell’aborto sia un’esperienza da vivere sola e in silenzio. Questa sua sofferenza, causata come lei spiega dal senso di isolamento e vergogna, possiamo lenirla solo insieme, cogliendo l’apertura praticata da esperienze collettive come Obiezione respinta, IVG ho abortito e sto benissimo17, le Mujeres Libres di Bologna18.

Qui vogliamo sottolineare uno scarto notevole rispetto al luogo (geografico ed esperienziale) da cui parla Harmange che, riferendosi sempre al silenzio in cui vede piombare le esperienze abortive e ai silenzi che hanno segnato anche la sua storia, scrive:

siccome l’aborto è una scelta, la società pretende cha sia una scelta necessariamente facile e serena. […] penso ferocemente che in sostanza a coloro che hanno abortito viene detto: come ti rifai il letto, così ti ci addormenti. L’hai voluto, l’hai avuto, adesso chiudi il becco e sorridi. […] Sii felice di partorire. Si felice di abortire. È tutto bianco perché, se fosse nero, o addirittura un po’ grigio, sarebbe troppo complicato.19

In Italia è esattamente il contrario, di aborto si può parlare solo coi toni della sofferenza e della ferita non rimarginabile che segnerà per sempre l’esistenza. Il racconto di una scelta serena, di un’esperienza risolta, anche nella sua complessità, non solo non è ammissibile ma è inaudito, impronunciabile.

Barbara Alberti (intellettuale che si dichiara di sinistra), in un articolo apparso su L’Espresso (giornale che si dichiara di sinistra) a Novembre del 2022, ha usato queste parole per descrivere l’aborto: “Gli antiabortisti dicono che l’aborto è un assassinio. Hanno ragione. Noi donne lo sappiamo bene. Ed è il più paradossale dei suicidi, la madre uccide sé. Sopprime il feto che è in lei, il germoglio, parte del suo corpo, non ancora bambino e già figlio. Essere tomba invece che culla. Non si guarisce dall’aborto. Se ne esce vive a metà. Portare un lutto segreto per sempre. Questo noi lo sappiamo. Nel millenario massacro dei nostri corpi, nel rimpianto che non dimentica. Solo le donne lo sanno”, una sintesi che non ammette replica, deve essere così e se non lo si dice si sta mentendo.

Non a caso Eugenia Roccella, che nel governo di Giorgia Meloni presiede il Ministero per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, ha colto al balzo l’occasione per ribadire che quella di Alberti è la verità attraverso l’abusato artificio retorico del paradosso di una vittimizzazione del potere20: “Barbara Alberti, scrittrice irriverente, laica, di sinistra, può dirlo. Un cattolico no. Un esponente della destra no. Sto parlando dell’aborto, su cui Alberti ha scritto un lungo articolo in cui dice le semplici verità che ogni donna conosce: che è un lutto”21.

Non neghiamo la possibilità che l’aborto sia *anche* un’esperienza dolorosa e luttuosa, neghiamo l’esclusività di questo racconto, l’ingiunzione che l’aborto sia *solo* un’esperienza dolorosa e luttuosa.

Se le scelte dipendono dalle condizioni sociali, culturali e materiali nelle quali si compiono, anche le storie dipendono dalle condizioni sociali, culturali e materiali nelle quali si raccontano.

Abbiamo sempre abortito e ci siamo sempre raccontate le nostre storie di aborto, non siamo noi che ci siamo censurate, è lo statochiesamercato che ha sempre fatto finta di non sentire.

Se in Italia l’interruzione volontaria di gravidanza assume quasi sempre i contorni della tragedia non è certo per via della sua natura di esperienza necessariamente traumatica, il trauma è dovuto quasi sempre ai tassi di obiezione, alle resistenze del personale sanitario e alla violenza epistemica.

Per questo tutte le esperienze collettive femministe, transfemministe e queer che hanno raccolto e continuano a raccogliere attraverso inchieste, autoinchieste, mappature i racconti di chi ha scelto con serenità di abortire ma ha dovuto fare i conti con le enormi difficoltà di accesso al servizio sono dirompenti e rivoluzionarie.

Per questo è importante non solo non ridurre il discorso sull’aborto e le battaglie per esso a una questione privata, ma soprattutto è fondamentale allargare questi discorsi e queste battaglie.

Quando Harmange parla del coinvolgimento degli uomini nelle discussioni sull’aborto lo fa parlando solo dei maschi cisgenere eterosessuali

escludere totalmente gli uomini dal dibattito sull’aborto non significa continuare a proteggerli e a sollevarli da ogni responsabilità? […] Temo che, tenendo gli uomini sempre all’oscuro di ciò che accade quando la contraccezione fallisce […] continuiamo a metterli al riparo da ciò che succede, molto concretamente, una volta che hanno eiaculato.22

Gli uomini non sono affatto esclusi dal dibattito sull’aborto, ci sono uomini che possono aver bisogno di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza. Su questi uomini sì che c’è un grosso silenzio, se non negazione di esistenza, da parte non solo dello statochiesamercato ma anche di certe frange del femminismo.

L’aborto non riguarda solo le donne cisgenere eterosessuali, ma anche le persone trans, intersex, non binarie, genderfluid, riguarda tutte le persone che hanno un utero e una vita sessuale che può implicare il rischio (o il desiderio) di una gravidanza.

Queste persone sono nel dibattito, nessuna/o deve includerle, l’idea di inclusione porta con sé inevitabilmente la certezza del privilegio di chi si arroga l’autorità di decidere chi debba essere inclus_aou.

Per questo parliamo di giustizia riproduttiva e di salute sessuale, perché il discorso può essere solo se non è essenzialista, specista e discriminante.

Come scrive Harmange, “lo stigma sociale che circonda l’aborto serve esclusivamente gli interessi del patriarcato.”23 Gli interessi del patriarcato non possono che riflettersi anche negli organi dai quali emana, e uno di questi è lo Stato, con le sue leggi.

Le legislazioni sull’aborto – da quelle più progressiste e a quelle più restrittive – in questo senso sono emblematiche, basate troppo spesso sui principi dell’antico testamento: abortirai sì, ma con difficoltà, dolore e disagio.

La legge ci permette di abortire, ma la società ci impedisce di parlarne. E così molte di noi si sottomettono alla legge del silenzio per il persistere di vergogna e senso di colpa”24, perché è nell’interesse del patriarcato, dunque nell’interesse di statochiesamercato, controllare le scelte e così limitare le possibilità di esistenza e di autodeterminazione, di chi può metterlo in discussione.

Questo posizionamento incarnato del potere, come già notavano le femministe ante litteram Mary Wollstonecraft e Olympe de Gouges, ha delle implicazioni molto concrete sui corpi delle donne e delle persone LGBTQIA+: infantilizzazione, patologizzazione, paternalismo, solo per citare le più evidenti. La simbologia del materno, per affermazione o per negazione, viene usata contro questi corpi in modo strumentale, relegandoli a una cittadinanza mozzata nella quale lo stato si ricorda di loro solo quando li può strumentalizzare25. “Cavità gestazionale in potenza – scrive Paul B. Preciado – l’utero non è un organo privato, ma spazio biopolitico per eccellenza, al quale non si applicano le norme che regolano il resto delle nostre cavità anatomiche. […]”26. Il corpo con utero è considerato dallo statochiesamercato uno spazio da colonizzare, da espropriare perché troppo pericoloso, un terreno sul quale edificare il proprio potere.

Ridurre le persone a un organo e da questo significarle come integrità inalterabile è un enorme strumento di oppressione, spacciato per verità scientifica, utilizzato dai fascismi, dalle religioni, dalle persone transodianti27 e dal patriarcato per continuare a garantirsi il privilegio28.

Le politiche dell’utero sono politiche dei corpi, sui corpi, e il mio corpo è il nostro corpo.

La vergogna e il senso di colpa di cui parla Harmange non sono sentimenti personali, individuali, bensì esiti intenzionali della violenza della norma.

Le femministe hanno riconosciuto da tempo che troppe delle questioni che si connettono al nostro corpo sono state relegate alla sfera del privato per escluderle dallo spazio pubblico, come se fossero secondarie, meno importanti.

Il personale è politico” non si riferisce semplicemente al fatto che la mia esperienza personale ha un portato politico nel momento in cui la socializzo e la rendo collettiva, ma esplica la sua potenza più dirompente proprio nel movimento contrario, quando ci rendiamo conto che quello che proviamo e come lo proviamo è spesso condiviso con le stesse sfumature dalle altre29, perché abbiamo interiorizzato una cultura che ci vuole in un certo modo.

In quel momento, quando ci riconosciamo l’una negli occhi dell’altra, spezziamo l’incantesimo, decostruiamo la norma, indichiamo il re nudo.

E in quel momento, il re… comincia a cagarsi sotto dalla paura.

Bibliografia

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A. Clarke, Introdurre Making Kin. Fare parentele, non popolazioni, in A. Clarke, D. J. Haraway (a cura di), Making Kin. Fare parentele, non popolazioni, trad. it. di A. Balzano, A. A. Ferrante, F. Timeto, DeriveApprodi, Roma 2022.

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1 P. Harmange, infra, p. 97

2 Sulla giustizia riproduttiva si veda la definizione che ne danno le SisterSong sul loro sito: https://www.sistersong.net/reproductive-justice/

ma anche L. Ross, L. Roberts, D. E. Roberts, E. Derkas, W. Peoples, P.D. Bridgewater, Radical Reproductive Justice, Feminist Press, New York 2017.

3 G. Gaard, Reproductive Technology, or Reproductive Justice? An Ecofeminist, Environmental Justice Perspective on the Rhetoric of Choice, in “Ethics and the Environment”, 2010.

4 P. Harmange, infra, p. 96

5 Consce, come la stessa Haraway, dei limiti e delle criticità del termine “multispecie”, in attesa di trovarne un altro di comprensione comune continuiamo a utilizzarlo per riferirci a un preciso contesto teorico.

6 Sulla giustizia riproduttiva ambientale (environmental) si veda: K. M. de Onis, Looking Both Ways: Metaphor and the Rhetorical Alignment of Intersectional Climate Justice and Reproductive Justice Concerns, in “Environmental Communication”, 6 (3): 308–327, 2012.

7G. Gaard, op. cit.

8 Questa la ricostruzione fatta nel volume che consigliamo di leggere sugli sviluppi della giustizia multispecie: S. Chao, K. Bolender, E. Kirksey, The Promise of Multispecies Justice, Duke University Press, Durham and London 2022; D. J. Haraway, When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis and London 2008.

9 A. Clarke, Introdurre Making Kin. Fare parentele, non popolazioni, in A. Clarke, D. J. Haraway (a cura di), Making Kin. Fare parentele, non popolazioni, trad. it. di A. Balzano, A. A. Ferrante, F. Timeto, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 6.

10 Z. Sofia, Feti sterminatori, in A. Balzano, E. Bosisio, I. Santoemma (a cura di), Conchiglie, pinguini, staminali. Verso futuri transpecie, DeriveApprodi, Roma 2022.

11 M. Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, trad. it. di A. Balzano, Ombrecorte, Verona 2013.

12 P. Harmange, infra, p. 96

13 https://socorristasenred.org

14 Per approfondire vedi V. Greco, Oggi, ieri, domani: molto più di 194, in “Il lavoro culturale”, 4 giugno 2018 https://www.lavoroculturale.org/oggi-ieri-domani-molto-piu-di-194/valentina-greco/2018/

15 “Le mobilitazioni del movimento femminista mirano alla depenalizzazione e non a una legislazione ad hoc sull’aborto. Una posizione comune sia al Movimento di liberazione della donna, inizialmente federato al Partito radicale e poi resosi autonomo, sia al Movimento femminista romano, che nel 1976 scrive: «Noi ribadiamo la nostra posizione per la totale abrogazione del reato di aborto. Qualsiasi forma di legislazione sull’aborto, anche la più ampia, presuppone un controllo sulla donna»”. B. Busi, Le donne dicono basta alla libertà provvisoria, in “Liberazione”, 21 maggio 2008.

16 Basti pensare alla convergenza di intenti e sforzi che si è creata tra Obiezione Respinta e Women on Web. Anche se, in teoria, l’Italia rientra tra i paesi nei quali l’accesso all’aborto è garantito, nel 2018 Women on Web, con la collaborazione di Obiezione Respinta, ha tradotto le sue pagine anche in italiano, dal momento che le richieste di aiuto per ottenere un IVG sono in costante aumento dal 2015: nel solo 2019 ben 473 donne qui residenti si sono rivolte a Women on Web per l’aborto farmacologico. Dalla sua nascita, nel 2017, a oggi, Obiezione Respinta ha raccolto così tante segnalazioni di ricorsi illeciti all’obiezione e così tante storie di donne e persone che hanno visto negati i propri diritti a salute e autodeterminazione che ha deciso di restituirne il portato di questa potente mappatura online costruita dal basso” nel volume Obiezione Respinta, diritto alla salute e giustizia riproduttiva: “la mappa raccoglie a oggi centinaia di segnalazioni. Le donne forniscono informazioni sui presidi sanitari o le farmacie, restituendo delle valutazioni e dei resoconti personali dell’esperienza vissuta: spesso hanno incontrato obiettori e obiettrici di coscienza” (C. Settembrini, Obiezione respinta. Diritto alla salute e giustizia riproduttiva, Prospero Editore, Milano 2020, p. 7).

17 Questa pagina IG è un’ottima testimonianza di come in un paese con il 70% di obiezione di coscienza, il movimento per la vita nei consultori e una bassissima percentuale di impiego della RU486 l’aborto sia raramente un dramma in sé, dal momento che più frequentemente sono gli ostacoli che si interpongono tra noi e le tecniche di IVG a renderlo drammatico.

18 Si veda la campagna “abortisco e non mi pento” lanciata dalla Mujeres Libres per “trovare nelle parole dell’altra e nella pratica della condivisione forza ed energia” e per “creare e divulgare una narrazione dell’aborto che non sia quella colpevolizzante, vittimistica di matrice cattolica, che vuole sempre le donne pentite, poverine, sopraffatte e mai autodeterminate”: https://mujeres-libres-bologna.noblogs.org/campagna-abortisco-e-nonmipento/

19 Harmange, infra p. 88

20 Il “Non si può più dire niente” di destre, conservatori, fascisti, maschilisti, transodianti, sessisti si traduce sempre “Si deve dire solo quello che voglio io e voi dovete stare zitt_ei”

21 Dal profilo Facebook di Eugenia Roccella, post del 20 novembre 2022, https://www.facebook.com/eugeniaroccella/posts/pfbid0ozcKHryPkouWvSaUiqP9G3hqNXkEope95TXKDnJNR3xx9EMr3Muj8Seipe56amfxl

22 P. Harmange, infra, pp. 92-93

23 P. Harmange, infra, p. 108

24 P. Harmange, infra, p. 62

25 A. Balzano, Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane, Meltemi, Milano 2021.

26 P. B. Preciado, Déclarer la grève des utérus, in “Libération”, 17 gennaio 2014, https://www.liberation.fr/france/2014/01/17/declarer-la-greve-des-uterus_973661/

27 Usiamo transodianti perché ci sembra esprimere la realtà di quanto accade, non si tratta di paura interiorizzata (fobia) ma di vero e proprio odio, desiderio di cancellazione, di alcune persone.

28 “Questa costruzione – scrive Ludovico Virtù – opera tramite la frammentazione del corpo, ritagliando degli organi per trasformarli nel centro naturale e anatomico della differenza di genere (uomo/donna), una etero-partizione del corpo”.

L. Virtù, Dis/organizzare la sessualità fai da te in una prospettiva trans, in C. Cossutta, V. Greco, A. Mainardi, S. Voli (a cura di), Smagliature digitali. Corpi, generi, tecnologie, Agenzia X, Milano 2018, p. 54.

29 Qui abbiamo scelto di usare il femminile non come genere sessuato, ma come genere politico che disobbedisce alla norma linguistica.