Angela Balzano. La cosa medica per eccellenza
Siamo con le migliaia di persone che lottano contro la violenza di genere. Lo Stato che arresta e manganella le attiviste femministe quando protestano non fa che renderci più evidenti i nessi tra violenza di genere e violenza di Stato. Siamo con l* compagn* che hanno protestato contro la sede dei pro-vita a Roma e per questo rendiamo disponibile l’intero primo capitolo di Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane di Angela Balzano, Meltemi edizioni. Vi troverete un approfondimento sui movimenti per la vita e sulla violenza fascista e patriarcale che agiscono, ma anche un invito all’insubordinazione per la giustizia riproduttiva. Ringraziamo la casa editrice per la possibilità concessa.
Angela Balzano – La cosa medica per eccellenza. Figurazione 1: Trotula
Le mie mani sono stanche e poi ho istruito molte ragazze che ormai in tutta la città mi sostituiscono a dovere. So che il maggior apporto all’arte della medicina è rappresentato dalle mie conoscenze in campo ginecologico. Ho elencato i rimedi che conosco per rendere il parto meno doloroso e per il controllo delle nascite.
Trotula
Paola Presciuttini
Trotula fu insignita del titolo di medico nell’XI sec. Si dice sia stata la prima donna a essere ammessa a una scuola di medicina, la Scuola Medica di Salerno, e la prima a essere sparita dalla storia della medicina stessa. Levatrice? Ginecologa? Erborista? Autrice del De passionibus mulierum ante, in et post partum (Sulle malattie delle donne prima, durante e dopo il parto), ci ricorda che l’utero è sempre stato lì, tra la vagina e le tube di Falloppio, e che non è sempre stato “la cosa medica per eccellenza”.
Il corpo delle donne nel Medioevo non era il corpo della medicina, benché controllato dalle tecnologie del potere pastorale (cristiano), piegato alle funzioni del feudalismo patriarcale. Gli uomini non erano soliti varcare la soglia della stanza della puerpera: il corpo delle donne era il corpo delle donne. C’è stato un prima del capitale, un prima della medicina occidentale. Un tempo da non mitizzare, ma da riconoscere come particolare momento storico in cui saperi e pratiche legate alla riproduzione erano concentrati nelle mani delle donne.
La stessa dequalificazione del corpo e dei suoi piaceri sostenuta con ardore dal cattolicesimo aveva permesso a quest’autonomia di svilupparsi. I medici avrebbero fatto meglio a ignorare il corpo fonte di ogni peccato. Ma Trotula era una medica. Lei poteva spiegare alle altre donne che per gestire al meglio il potere nelle loro mani avrebbero prima di tutto dovuto lavarsele. Trotula poteva istruirle su come evitare gravidanze indesiderate, su come arrivare preparate al parto. Quando la chiamavano per un aborto, reagiva come quando la interpellavano per un parto difficile: preparava la sua sacca e si metteva in cammino.
Non risalgono al Medioevo le prime leggi che vietano il ricorso all’aborto, ma dal Medioevo in poi l’aborto diviene oggetto di interesse della religione cristiana che, soprattutto in Occidente, lo condanna in modo netto. Tuttavia la religione cristiana doveva fare i conti con la cultura greco-latina disposta ad accordare sovranità decisionale alla donna: “Il diritto romano […] non considerava il nasciturus come essere umano ma come parte del corpo materno. Partus antequam edatur mulieris portio est vel viscerum. […] Nell’insieme della società greco-romana, l’aborto è ammesso dalla legge” (de Beauvoir 2008 [1961], p. 140).
La religione cristiana ha introdotto l’idea che l’aborto fosse un omicidio, conseguenza della dottrina che vede nell’embrione una persona, ma ha dovuto attendere il dispiegarsi dell’arte governamentale occidentale della tarda modernità per vedere diventare l’aborto reato (e Trotula una criminale). Prima del biopotere ci sono stati i roghi. L’Illuminismo brillava di luce riflessa, la luce prodotta dai corpi arsi delle streghe, delle eretiche, che altro non erano che guaritrici, erboriste, esperte conoscitrici dei propri corpi: le mille Trotula della storia vissute tra il XV e il XVII sec. non sono diventate mediche.
A condannarle erano i tribunali ecclesiastici. Solo dopo l’epoca dei “lumi” il biopotere diventa strategia di governo della popolazione e lo Stato assorbe in sé funzioni e dispositivi pastorali prima propri della Chiesa: solo da allora in gioco non vi è più l’anima dell’embrione, ma la sua potenziale vita di cittadino.
Dal XIX sec. le politiche demografiche tendono all’incremento della popolazione: nei codici degli Stati-nazione della prima metà del XX sec. l’aborto viene considerato reato contro la sicurezza dello Stato. Perché l’utero è sempre stato lì, tra la vagina e le tube di Falloppio, ma la popolazione no, quella ce l’hanno messa contro la nostra volontà solo gli imperialismi e i totalitarismi occidentali.
Gli Stati-nazione – complici saperi medico-psichiatrici, religioni, diritto e istituzioni disciplinari – hanno generato il tipo di famiglia “cellulare”, riconoscibile biologicamente e anagraficamente grazie alla proliferazione di precise norme di genere. Il modello di famiglia borghese, dall’inizio del XIX sec., si configura come nucleo chiuso, privo di figure intermediarie, stretto in “uno spazio affettivo denso” (Foucault 2006, p. 223) in cui i ruoli di madre e padre si ascrivono seguendo le linee di sesso e discendenza. La fisica dello spazio familiare si organizza intorno al corpo del bambino, la cui salute diventa scopo di vita dei genitori: è così che si opera la medicalizzazione della famiglia. La famiglia medicalizzata è per Foucault un’istanza di normalizzazione: grazie a essa si distingue tra ciò che è normale e ciò che è anormale.
In questo quadro si comprende come, dal Codice napoleonico al Codice Rocco, il corpo delle donne diventi la “cosa statale e medica per eccellenza”, perché è stata la “doppia sollecitudine medico-giudiziaria” (Foucault 2000, p. 106) a permettere alle biopolitiche governamentali occidentali il controllo di sessualità e riproduzione. Norme e protocolli medici, sentenze e trattati hanno ridisegnato i confini dei e nei nostri corpi. Ancorandosi alla possibilità di rendere visibili processi e materiali biologici, hanno astratto feto e gravidanza dai corpi cui sono visceralmente legati, per farne interesse “nazionale”, materia di diritto grazie al bisturi prima, all’ecografia poi.
Quando la ginecologia comincia ad affermarsi, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX sec., il corpo delle donne comincia a pullulare di malattie, infezioni, disfunzioni. Al contempo le donne vengono ridotte alle funzioni riproduttive del sesso che viene loro assegnato alla nascita. Foucault ritiene che questa riduzione delle donne al solo sesso sia precedente all’Illuminismo, ma precisa che “questa situazione molto antica è precipitata verso il XVIII sec. per approdare a una patologizzazione della donna: il corpo della donna è diventato la cosa medica per eccellenza” e aggiunge “tenterò più in là di fare la storia di questa immensa ginecologia” (Foucault 2010, p. 130).
Rispondeva così a un’intervista per Le Nouvelle Observateur del 1977, l’anno seguente la pubblicazione del primo volume della trilogia Storia della sessualità. Eppure nelle sue opere successive non c’è traccia di una simile genealogia. La ripresa femminista di Foucault si confronta con le sue aporie, perché non è possibile tentare un’analisi della biopolitica, né collocarsi criticamente rispetto a essa, senza rimettere al centro i corpi che da sempre ri/producono il bios. Corpi che dal XVIII secolo in avanti non hanno più incontrato occhi discreti e mani lievi come quelli di Trotula, ma sguardi giudicanti e mani pesanti come quelli degli “scienziati” Freud, Adler, Kellogg, Von Krafft-Ebing, Dunlop, Cuvier, Sims… E siccome non c’è nessuna Trotula in questa lista di illustri uomini di scienza, esplicitiamo la domanda: chi ha fatto la biologia dai suoi albori (sempre il XVIII sec.) fino alla seconda metà del XX sec.?
La biologia è un gigantesco caso di mansplaining: gli uomini che ci spiegano come siamo fatte. Non sorprende che affermazioni prive di alcuna evidenza come “le donne soffrono di anestesia sessuale” (T. Laquer 1990) abbiano assunto lo statuto di nozione scientifica; del resto dalla nostra biologia è stato espunto il piacere, perché tutto lo spazio fosse occupabile dal fine ultimo del dispositivo “differenza sessuale”: la riproduzione della specie a mezzo della famiglia nucleare. Le parole del medico Von Krafft-Ebing suggellano lo statuto di secondo sesso che ci viene via via assegnato, esplicitano molto bene la coincidenza di processi di medicalizzazione dei corpi e processi di patologizzazione: “Dal momento che la donna ha meno desiderio sessuale dell’uomo, un troppo pronunciato desiderio sessuale in lei induce a sospettare che ella soffra di una importante patologia” (Von Krafft-Ebing 1900, p. 73).
Rimossa la memoria delle erbe e della carne, i ginecologi hanno cominciato a scavare nel nostro ventre. Su quali corpi hanno operato e come? Per comprendere in che modo la politica della vita faccia vivere alcune persone e morire altre ricorriamo a un esempio. Il ginecologo Sims (non sono da meno Dunlop e Cuvier) nelle sue memorie spiega che prima di dichiarare guarita la schiava Anarcha, l’aveva sottoposta a trentaquattro interventi senza anestesia (Sims 1884; Mcgregor 1990).
Il divieto di aborto si inscrive in un quadro di crescente medicalizzazione dei corpi. È stato necessario sottrarre alle donne saperi e pratiche elaborati in autonomia, sostituire a essi saperi molari e di-potere per riuscire a criminalizzarle. È stato necessario connettere medicalizzazione e criminalizzazione, normalizzare i corpi delle donne, perché si arrivasse alla produzione del corpo-massa popolazione, i cui comportamenti in materia di sessualità e riproduzione risultassero conformi al doppio fine dell’incremento delle nascite e della ricchezza interna allo Stato-nazione.
Il Codice Rocco, codice penale fascista, lo conferma: il divieto di aborto è emblematicamente inquadrato nel decimo Titolo, che recita Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe (Artt. 545-555). L’aborto non era un problema morale, ma politico-economico. A leggere l’art. 546 (Aborto di donna consenziente) ci appare chiaro l’impianto patriarcale: si punisce con cinque anni di reclusione la donna e chi la ha aiutata ad abortire, ma non il primo sesso. Assente e innominato, non è nel corpo del maschio della specie che si inscrive l’obbligo alla ri/produzione. Fino al 1978 il Titolo X del codice fascista ha condannato le donne alla clandestinità, a incertezze e rischi di vita e salute. Trotula ne sarebbe uscita indenne? No, avrebbero condannato anche lei come hanno condannato Gigliola Pierobon e tutte le attiviste, le femministe, le/i ginecologhe/i, le/i politiche/i che si denunciavano per praticato aborto. Ma questa è un’altra storia. La storia del nostro aborto.
Convissuto radicato 1: La storia del nostro aborto
Di notte sogno Adele Faccio, che ci accompagna a Londra in aereo. I sedili sono tutti occupati da donne col pancione. Andiamo tutte ad abortire a Londra.
Vogliamo anche le rose
Alina Marazzi
Non tutte le donne che vivevano in Italia prima dell’abrogazione del Titolo X del codice fascista avevano la possibilità di abortire a Londra. La stessa ragazza che racconta l’esperienza del suo aborto ai tempi della criminalizzazione non ha preso quell’aereo. Grazie a reti e consultori autogestiti femministi non si è dovuta affidare ai ferri da maglia. La verità però è che fino alla fine degli anni Settanta – l’aborto è stato depenalizzato nel 1978 – le strade per abortire clandestinamente si dipanavano a partire dalle condizioni di vita delle donne, soprattutto dal loro livello di reddito e istruzione. Chi ne aveva facoltà poteva recarsi all’estero, tuttavia molte delle nostre madri/zie/nonne/parenti/amiche si affidavano ai ginecologi che praticavano l’aborto illegalmente chiedendo in cambio esose somme di denaro: “i cucchiai d’oro”[1].
La maggioranza degli aborti era eseguita con decotti di prezzemolo e chinino o ferri da calza. Queste le principali strade fino agli inizi degli anni Settanta, quando è tornato il tempo della condivisione, dell’autorganizzazione, dell’autogestione di corpi e salute. I metodi utilizzati non erano quelli di Trotula: il self-help femminista negli anni Settanta ha dalla sua lo speculum e la metodica Karman [2]. Gruppi quali il Movimento di Liberazione della Donna, in sintonia e collaborazione con i consultori autogestititi come il CISA (Centro Informazioni Sterilizzazione e Aborto) e l’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica), offrivano alle donne informazioni sulla contraccezione e praticavano aborti, illegali ma sicuri.
La ragazza che racconta il suo aborto, nel documentario Vogliamo anche le rose di Marazzi (2007), è riuscita grazie a loro a interrompere la gravidanza. La loro era una forma di disobbedienza civile, sapevano che sarebbero incappate nelle sanzioni statali, provocavano l’intervento delle forze dell’ordine al fine di evidenziare il cinismo della norma. C’è stato un uso liberatorio e sovversivo delle tecniche mediche, come altre forme di lotta politica. Non tutte le femministe chiedevano una legge, per molte la sola liberalizzazione sarebbe stata sufficiente (Rivolta Femminile e il movimento femminista romano).
Il PCI e il Partito Radicale ritenevano si dovesse procedere a mezzo di proposte di legge. L’Espresso e la Lega XIII maggio scelsero la via del Referendum e così il 12 luglio 1975 vennero depositate 750.000 firme per il referendum abrogativo degli articoli del codice di cui al Titolo X. Il 18 dicembre 1975 la Corte costituzionale dichiarò ammissibile il referendum, ma il primo maggio 1976 il presidente Leone sciolse le camere.
Il messaggio era chiaro: la legge sull’aborto non può essere “scritta dal basso”. Tanto era il timore che passassero le istanze di femministe e radicali, che erano preferibili le elezioni anticipate. A riprova che l’urgenza primaria di uno Stato-nazione è il controllo della riproduzione, ricordiamo che il presidente Leone aveva già sciolto le camere per evitare un altro referendum, quello sul divorzio nel 1972. Tra il 1972 e il 1976, di conflitti sociali ve ne furono tanti, i movimenti di studenti e operai fecero anche più clamore di quelli femministi, ma lo scioglimento del governo è stato motivato da aborto e divorzio, non dalla chiusura anticipata delle fabbriche né dalla violenza organizzata dei gruppi extraparlamentari.
Lo Stato-nazione sul salario può sempre mediare, può reprimere le proteste studentesche, ma come fa a obbligare le donne a riprodursi quando non vogliono farlo? Come ri/produrre studenti e operai senza il loro consenso? E quali forme mostruose potrebbe mai assumere la ri/produzione se non contenuta nel recinto della famiglia eterosessuale?
Sento l’influenza di Rivolta Femminile mentre scrivo. L’influenza di chi sapeva che “la negazione della libertà d’aborto rientra nel veto globale che viene fatto all’autonomia della donna” e di chi aveva ben identificato “nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di Stato, di sussistere” (Rivolta Femminile [1970], in Lonzi 2010, pp. 7-8). Lo Stato aveva colto la sfida lanciata dalle lotte femministe: si rivendicava l’aborto libero, sicuro e gratuito, si lottava per la redistribuzione dei redditi, contro la divisione sessuale del lavoro.
L’irriducibilità dell’autogestione del corpo è il buco nero dello Stato, per colmarlo ha bisogno di leggi proibitive e sanzioni, così come l’istituzione famiglia e il sistema ri/produttivo a essa collegato è il suo muro portante, da proteggere pena la caduta della struttura. La Legge 194 del 1978 è stata varata da un governo della DC, con presidente del consiglio Andreotti, nel famigerato periodo politico del compromesso storico per attenuare l’impatto delle rivendicazioni femministe.
La storia del nostro aborto è la storia di un compromesso marchiato sui nostri corpi. La 194 non è purtroppo stata scritta dalle femministe, anche se non saremo mai arrivate al punto di abrogare il codice fascista se non fosse stato per loro, per tutte le Gigliola Pierobon della storia cui sento di appartenere.
Gigliola Pierobon, nel 1969, stava testimoniando a un processo quando da “testimone diventa accusata” (Greco 2018) di procurato aborto. Il Pubblico Ministero di Padova chiese un anno di reclusione senza perdono giudiziale, perché Gigliola non si pentì mai anzi rivendicò sempre la piena decisionalità sulla sua vita e sul suo corpo. La mobilitazione femminista fu forte abbastanza da influenzare il giudizio del Tribunale di Padova che dichiarò che non si doveva procedere. Non fu però assoluzione, ma “perdono giudiziale”, espressione che denota la volontà di non riconoscere l’autodeterminazione delle donne:
Le viene pertanto concesso il perdono giudiziale del reato, senza tener conto di qualche atteggiamento esibizionistico tenuto in udienza […], ma piuttosto della resipiscenza dimostrata con la consapevole accettazione di una seconda maternità (Pierobon 1974, pp.198-199).
Gigliola non è ancora una “persona” per la magistratura, sfugge alla pena perché nel frattempo è diventata madre, assolvendo al destino che lo Stato-nazione vorrebbe ineluttabile per tutte. Bisogna attendere la sentenza n. 27 del 1975 perché la magistratura registri la necessità di un cambiamento normativo. La sentenza dichiara che l’art. 546 del Codice Rocco era un ostacolo per la salute delle donne e che l’aborto non poteva più essere un “reato contro la stirpe” punito in nome del “benessere demografico”. Bisognava constatare che persona è la donna, sia quando decide di portare a termine la gravidanza sia quando decide di interromperla: “Non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.
Prima di questa sentenza vi era stata la sentenza n. 49 del 1971, che abrogava la norma vietante la circolazione dei contraccettivi, l’art. 553 del Codice Rocco. Tuttavia, il Ministero della Salute, ignorando la sentenza, nella pratica ha per anni continuato ad applicare le norme del “Regolamento per la registrazione dei farmaci” (del 1927!), vietando “la registrazione di specialità medicinali e di presidi medico-chirurgici aventi indicazioni anticoncezionali”. Solo nel 1976 il Ministero, costretto dalle battaglie di AIED e femministe, ha abrogato anche le norme del regolamento dei farmaci: la pillola non era più “un farmaco regolatore del ciclo mestruale” ma a tutti gli effetti un contraccettivo che permetteva alle donne di non accettare la maternità come destino ineluttabile.
Convissuto radicato 2: Pillola, Pillole… Pillolo!
Yes, I wanna be a mama
I don’t want to abort
He has a right to live
I refuse birth control.
I wanna be a mama
Stereototal
La pillola è un contraccettivo sicuro nella misura in cui sicuro è l’effetto che sortisce: inibire l’ovulazione di modo da evitare la gravidanza. Ciò non significa che nelle sue prime formulazioni la pillola anticoncezionale non comportasse rischi per la salute delle donne o che non ne comporti oggi. Ma quale farmaco non ha controindicazioni?
La pillola anticoncezionale continua a permettere a migliaia di eterosessuali di controllare le proprie funzioni riproduttive. Le altre pillole, i contraccettivi d’emergenza noti come pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo, aumentano le possibilità a disposizione delle donne per evitare ogni gravidanza indesiderata. Tuttavia mi chiedo se non è forse necessario il gamete maschile perché l’ovulo possa dirsi fecondato. Possibile che non si possa pensare di modificare ormonalmente anche i maschietti? I rischi per la salute connessi alla pianificazione della vita sessuale e riproduttiva sono riservati al solo secondo sesso, almeno a giudicare dal fatto che ancora oggi in commercio non si trova niente di simile a un pillolo.
Con tutta evidenza, la storia della nostra autodeterminazione non ha già un lieto fine. Neppure oggi, malgrado le scienze della vita abbiano messo a punto una combinazione di pillole che ci permette di abortire senza ricorrere all’intervento chirurgico, possiamo dirci giunte alla piena autogestione dei nostri corpi. Perché? Perché nonostante l’OMS nel 2005 si sia espressa sull’efficacia dell’RU486, in Italia è stata bandita fino al 2009. Prima di approvarne la commercializzazione il governo italiano ha avviato un periodo di sperimentazione ingiustificato, se si pensa che il farmaco era già in uso in altri paesi membri della Ue.
Di fatto la sperimentazione è stata interrotta dall’AIFA, che nel 2009 ha scelto la procedura europea di mutuo riconoscimento, nonostante le polemiche dei movimenti per la vita [3]. Quest’ultimi hanno per anni chiamato l’RU486 Kill Pill, tacciandola di essere mezzo di incoraggiamento all’aborto: in quanto più veloce e indolore dell’aborto chirurgico, indurrebbe le donne a farvi ricorso quasi si trattasse di un normale anticoncezionale. Quest’infondata opinione ha influenzato per anni le scelte del governo italiano, anche dopo l’approvazione.
A ben guardare la RU non è solo un modo meno invasivo e più efficace per interrompere una gravidanza, un’innovazione farmaceutica: apre alle donne la possibilità immanente di sottrarsi alla medicalizzazione. Lo abbiamo appreso e scritto insieme a Bologna, durante un’assemblea nazionale di Non Una di Meno (NUDM): “L’aborto farmacologico pone le condizioni per svincolare la donna dallo strapotere medico-ginecologico in fatto di interruzione volontaria di gravidanza”.
È forse questa la ragione delle bassissime percentuali di impiego che la RU registra sul territorio nazionale: da ultima relazione del Ministero della Salute, risulta somministrata solo nel 17,8% dei casi. Il personale medico in Italia tende a non usarla per impedire alle donne di autogestire i propri corpi. Sono state le lotte femministe e le associazioni di medici a richiamare l’attenzione sul fatto che l’impiego della RU dovrebbe aumentare e che bisognerebbe poterla somministrare in regime ambulatoriale e di day hospital fino al giorno 63 di amenorrea (come previsto dall’Agenzia Europea del Farmaco).
Queste sono le rivendicazioni di NUDM, ma anche dell’Associazione Luca Coscioni e di AMICA (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto) che nel 2017 hanno lanciato una raccolta firme, seguita dalla campagna della rete Pro-Choice, che durante l’emergenza sanitaria covid-19 si è rivolta al Ministro Speranza e all’AIFA ottenendo un tavolo di negoziazione. Queste rivendicazioni sono state recepite dal Ministero della Salute solo nel 2020 durante la pandemia, quando l’evidente congestione e il malfunzionamento della sanità pubblica lo hanno spinto a una ri-organizzazione del servizio di interruzione volontaria di gravidanza. Se queste istanze hanno faticato tanto a essere accolte è perché la RU è una farmaco-politica molto potente: nel paese dell’obiezione di coscienza al 70%, aiuterebbe a migliorare il servizio, alleggerendo il carico di lavoro del personale non obiettore (Settembrini 2020).
E ora che abbiamo visto quante opportunità ci sono in una “pillola”, pensiamo a quelle che ci dischiuderebbe il pillolo. Lo stesso nome con cui è diventata nota la contraccezione ormonale maschile (Hormonal Male Contraception, HMC) induce in errore: nelle varie sperimentazioni si è trattato di mettere a punto farmaci da iniettare o formulazioni in gel. Accettiamo questa genderizzazione dell’innovazione farmacologica rappresentata dalla HMC, perché ci permette di evidenziare le asimmetrie che caratterizzano generi e assunzione di responsabilità nelle scelte riproduttive.
La quasi totalità della contraccezione, a livello globale, è a nostro carico. Il trend di utilizzo dei contraccettivi moderni è significativo: le donne che vi ricorrono sono in aumento, il dispositivo intrauterino (IUD) e la pillola ormonale sono i più diffusi. In troppi paesi purtroppo il metodo più comune rimane la chiusura delle tube (Asia, America Latina, Caraibi e Nord America), operazione a lungo termine e difficilmente reversibile.
L’equivalente maschile, la vasectomia, è molto meno diffuso, pur causando minori effetti collaterali ed essendo più facilmente reversibile. Se consideriamo che le complicanze a breve termine di una vasectomia appaiono meno probabili rispetto a una chiusura delle tube, non possiamo non osservare che la sua maggiore diffusione è dovuta a fattori socio-culturali ed economici e spesso è forzata.
La contraccezione maschile si compone di metodi barriera (condom), spermicidi e vasectomia, ma nessun contraccettivo ormonale è disponibile in commercio. La contraccezione ormonale maschile non ha ancora superato la fase III degli studi clinici, ma ha alle spalle una lunga storia di sperimentazioni. Dal 1990 al 2012 il “pillolo” ha superato le precedenti fasi grazie all’impegno di OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e Conrad, che hanno condotto numerosi cicli di studi multicentrici, dei quali l’Italia, con la Clinica Universitaria di Ostetricia e Ginecologia del Sant’Orsola di Bologna, è stata partner. L’oggetto delle sperimentazioni consisteva in due iniezioni ogni due mesi di progestinico e testosterone. Durante la fase III promossa da OMS e Conrad, dal 2008 al 2010, 260 coppie sono entrate nella fase di efficacia (A.E. Costantino et al. 2014). Sui 260 partecipanti alla sperimentazione, ben 199 hanno raggiunto l’azoospermia.
Nonostante il successo della sperimentazione la contraccezione maschile non ha ancora ottenuto l’autorizzazione per entrare in commercio. Lo studio è stato addirittura interrotto, perché, nonostante gli esiti positivi, gli effetti collaterali sono stati ritenuti rischiosi rispetto alle previsioni. Allo scopo di approfondire la storia di questa sperimentazione e della sua interruzione riporto un’intervista alla Dott.ssa Costantino, allora Coordinatrice scientifica dello studio al Sant’Orsola di Bologna. Quando nel 2012 l’ultimo studio di fase III è stato interrotto, il Sant’Orsola aveva alle spalle quindici anni trascorsi senza notare alcun effetto collaterale grave. La Dott.ssa Costantino così si esprime:
Nelle sperimentazioni precedenti non erano emersi effetti collaterali in termini di salute fisica complessiva ed era assicurata la piena reversibilità. L’esperienza al Sant’Orsola è stata rosea, senza controindicazioni e complicazioni. Il sistema endocrino maschile è più semplice di quello femminile e per questo gli effetti collaterali causati dal “pillolo” sono meno presenti rispetto a quelli della “pillola”. I rischi, quando si assumono farmaci, ci sono sempre: possiamo solo sperare che siano minimi. Con la HMC c’era la possibilità di “dividersi” i rischi tra uomini e donne. La pillola è stata causa della morte di moltissime giovani non solo durante la fase di sperimentazione, ma anche dopo la sua entrata in commercio. Non voglio dire con questo che dovremmo tornare indietro nel tempo, è un bene che gli studi clinici siano oggi più etici del passato, tuttavia penso che con il “pillolo” ci sia stato un eccesso di zelo (A. Balzano 2015a, pp. 444-445).
Trascorsi otto anni dall’interruzione, oggi al Sant’Orsola la sperimentazione riprende: si testa un gel contraccettivo che richiede una sola applicazione al giorno a livello della cute delle spalle e delle braccia. Il gel contiene testosterone e un progestinico chiamato Nestorone®, che sopprime la conta spermatica. Tale studio, di fase IIb, è promosso dal Clinical Trial Network del National Institute of Child Health and Human Development (NICHD) in collaborazione con il Population Council negli Stati Uniti.
Dunque facciamo un po’ di conti, si dica mai che traiamo conclusioni accecate dal gender! La sperimentazione per la pillola anticoncezionale è iniziata nel 1953 e nel 1960 è stata approvata la sua commercializzazione (nel 1957 era venduta come farmaco per i “disturbi mestruali”). Sette anni di sperimentazioni, per molte di dubbia eticità, in un momento storico in cui la ricerca non disponeva neppure di mezzi tecnoscientifici e strumenti giuridici all’altezza della sfida. La sperimentazione per il “pillolo” è iniziata nel 1990 e oggi, ventinove anni dopo, non è ancora terminata. Eccezione fatta per le donne che hanno beneficiato della sperimentazione, nessun’altra ha provato il brivido della redistribuzione delle responsabilità sessuali e riproduttive, in pochissime hanno avuto il piacere di chiedere a un uomo: ti sei ricordato di prendere il pillolo?
In sottofondo la voce di una compagna parafrasa Carla Lonzi, e ci chiede: per il piacere di chi prendiamo la pillola, per il piacere di chi abortiamo?
Figurazione 2: La culla della nazione
Non dimentichiamo che è del fascismo questo slogan: famiglia e sicurezza
Manifesto di Rivolta Femminile
Non c’era da aspettarsi la libertà di aborto dal governo del compromesso storico. Nessuno stupore se le leggi sono proibitive e reazionarie quando il contesto culturale è cattolico e il governo neofondamentalista (Jasanoff 2008, p. 36). Governi come quello italiano (ma non sono da meno Spagna, Portogallo, Irlanda, Malta, Polonia…) hanno inteso la medicalizzazione dei corpi come un’opportunità per trasferire la custodia della moralità dalla religione alla clinica, più adatta a rivestire la funzione normalizzante e regolarizzatrice nei contesti secolarizzati della società attuale; hanno affidato alla medicina un ruolo morale quando si tratta di interruzioni di gravidanza (e di fecondazione assistita), anche se questa funzione morale rimane mistificata dall’appello a supposte ragioni scientifiche e dal ricorso ai dispositivi di visualizzazione della medicina riproduttiva [4].
L’ascesa del neofascismo pro-vita in Italia non è cominciata con le ultime elezioni politiche: si radica in una rete di associazioni e movimenti che operano da anni, in collaborazione tanto con governi di estrema destra quanto con supposti governi di sinistra.
Il 3 aprile 2018, l’organizzazione ProVita affigge un enorme poster a Roma (Fig. 2), che rappresenta un embrione umano. Il comunicato stampa con cui ProVita lancia la sua campagna descrive così il poster: “L’immagine di un bambino nel grembo materno, per scuotere milioni di coscienze”. E il testo è ancora più mistificante: “Tu eri così a 11 settimane. Ti succhiavi già il pollice. E ora sei qui perché tua mamma non ti ha abortito”. Questo era il primo atto di una campagna su più livelli lanciata in occasione dell’anniversario dei quarant’anni della legge 194. Secondo ProVita, la 194 deve essere modificata per permettere la protezione dell’embrione e valorizzare la maternità.
Fig. 2. Manifesto ProVita, 2018.
A questo scopo ProVita ha lanciato una raccolta firme. Una breve disamina di questa petizione è necessaria per rendere evidente il carattere pericolosamente innovativo della tattica adottata. Per aumentare i proseliti, ProVita non attacca direttamente l’autodeterminazione delle donne, né nel titolo si riferisce alla tutela dell’embrione. Come aveva indicato e spiegato Carlo Casini, primo presidente del Movimento per la Vita (MpV, la più datata organizzazione pro-life italiana), in un’intervista: “Per salvare i bambini abbiamo bisogno della cooperazione delle donne” [5]. Adottando il suggerimento di Casini, ProVita ha optato per il cambiamento retorico e titolato la petizione “Per la salute delle donne: firma perché siano davvero informate sulle conseguenze fisiche e psichiche dell’aborto volontario”.
Un ottimo esempio di appropriazione indebita: la rivendicazione di accesso alla salute delle femministe diventa una bene organizzata trappola biopolitica. Il testo dell’appello continua su questo registro, non comincia asserendo “l’embrione è uno di noi”. ProVita preferisce il registro medico-clinico e avverte “l’aborto danneggia più persone: non solo il bambino ma anche la madre, il padre, i fratelli, i nonni. I danni fisici e psicologici che l’aborto provoca alla madre sono purtroppo gravi e reali”.
Lo scopo di ProVita è quello di modificare il testo della 194 per introdurvi un articolo che obblighi i medici a informare le donne di questi infondati danni fisici e psicologici per influenzare la loro decisione rispetto all’interruzione volontaria di gravidanza. L’espediente retorico non riesce a oscurare il contenuto misogino e conservatore delle sue iniziative: le sue finalità non differiscono da quelle del MpV. Adottano stili comunicativi diversi ma convergono sulla decisione di appropriarsi dello spazio medico pubblico allo scopo di interdire la volontà delle donne, così come convergono sul mezzo: utilizzare la stessa 194 per impedire alle donne di abortire. Ma come siamo arrivate a tanto?
In Italia, il Movimento per la Vita fu fondato nel 1975 a Firenze per contrastare le battaglie pro-aborto, all’epoca illegale, e dare seguito alla dottrina della Chiesa Cattolica dell’Humanae Vitae. Ai suoi albori, attaccava esplicitamente la 194 e, definendo l’aborto un omicidio, accusava le donne di essere assassine. Il primo tentativo di ostacolare l’autodeterminazione delle donne del MpV risale al 1981: il referendum per l’abrogazione della legge n. 194/78 respinto dall’elettorato.
Dal fallimento del referendum, il MpV ha optato per una strategia più accomodante, capendo che l’attacco frontale alla legge non aveva prodotto i risultati sperati, e ha deciso di istituire, nel 1985, i Centri d’Aiuto alla Vita (CAV), dove si cerca di convincere le donne a non abortire. È sempre Carlo Casini a spiegarci che hanno imparato la lezione dopo il fallimento del referendum: “Chi vuole difendere la vita deve guardare la realtà, oggi non è possibile cambiare la 194, dobbiamo lavorare con quello che abbiamo” [6]. Ed ecco spiegato il nesso tra norma e clinica: senza l’art. 2 della stessa legge 194 sarebbe stato impossibile per il MpV entrare nelle strutture sanitarie pubbliche. Perché è quest’articolo a permettere loro di siglare contratti, partecipare a bandi, finanziare e aprire i loro CAV in consultori e ospedali pubblici:
I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.
La petizione di ProVita ripercorre la via dei propri predecessori, riformulando la strategia di comunicazione per intercettare più donne e giovani. Questo non significa che ProVita riconosca le donne come protagoniste, anzi, rimangono un target. Come le precedenti campagne del Movimento per la Vita, quella di ProVita non ritrae alcuna donna, si focalizza sull’immagine del feto all’undicesima settimana: prima non vi è modo di ammiccare alle somiglianze con il bambino che si succhia il pollice. La loro strategia comunicativa rimuove la presenza della donna per porre in primo piano il “prodotto del concepimento” [7].
L’astrazione dal corpo della donna si spiega con la necessità di definire “vita umana” l’embrione. Al confronto con la persona, l’embrione non regge alla prova della definizione “vita umana”: la donna non dipende da altr* per mantenersi in vita. L’embrione soppresso durante le interruzioni di gravidanza oggi è eliminato nelle prime settimane e prima del terzo mese, quando non sarebbe mai capace di sussistere in vita indipendentemente da placenta, cordone ombelicale e desiderio della donna di portare a termine la gestazione.
Nelle retoriche propagandistiche pro-life, si riscontra dalla fine degli anni Ottanta il ricorso all’immaginario spaziale per rappresentare il feto. L’immagine dell’uomo che fluttua libero nello spazio, legato solo dal cordone ombelicale all’astronave, è servita a diffondere la convinzione che il feto godesse di vita autonoma dalla madre. Non c’è alcuna madre nel poster di ProVita, al suo posto ritroviamo lo spazio vuoto intorno al feto (la loro fonte di ispirazione è 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, cfr. Haraway 2019b).
L’operazione è duplice, si tratta di rimuovere e rappresentare: “ProVita opera nel nome di chi non può parlare”. Rimuove l’esistenza di donne capaci di parola e autogestione del corpo, poi si autodelega alla rappresentanza di chi parola non ha perché neppure è mai nat*. Non si tratta qui di parlare per le donne, anche se i neofondamentalisti lo fanno spesso: gli attivisti pro-vita si sono autoeletti ventriloqui del non-nato. La domanda di Haraway (2019b, p. 88) – chi parla per il feto? – troverebbe pronta e condivisa risposta tra le fila dei teocon: “Noi parliamo per il feto… e facciamo di più!”.
Non abbiamo a che fare solo con una semiotica politica della rappresentazione. I contemporanei movimenti pro-life combinano campagne comunicative e iniziative politiche. I loro tentativi di rappresentare il non-nato sono connessi alla costruzione socio-culturale fascista di donne e famiglie. I movimenti per la vita tessono alleanze con forze politiche reazionarie e nell’ultimo decennio si sono dati da fare per bloccare ogni normativa destinata a migliorare le vite di donne e persone LGBTQI+ (Roma 2020).
Il poster di ProVita è stato rimosso pochi giorni dopo la sua affissione grazie alle proteste delle femministe. Tuttavia il 7 aprile, quattro giorni dopo, un attacco semiotico simile a una minaccia ha avuto luogo a Roma. Scioccate, guardiamo lo striscione appeso da Forza Nuova all’esterno della Casa Internazionale delle Donne di Roma e leggiamo il suo slogan: “194 strage di Stato”. Prima i cattolici, poi i fascisti: il maxi-cartellone dei pro-vita fa propaganda ideologica, lo striscione di Forza Nuova aggiunge la minaccia squadrista ed esplicita i termini del conflitto. Non a caso i fascisti lo hanno affisso sulla cancellata dalla Casa Internazionale delle Donne, esplicitando il loro obiettivo: nella crociata contro l’aborto si installa un più temibile attacco all’autodeterminazione delle donne, ai femminismi tutti.
Non hanno scelto il Ministero della Salute, né ospedali o consultori, perché la loro ossessione non consiste solo nel combattere l’aborto legalizzato all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, la loro ossessione è la possibilità che le donne scelgano di non compiere alcun lavoro riproduttivo: quando dicono “la 194 è una strage di Stato” i neofondamentalisti dicono “voglio che tu sia piegata all’ordine riproduttivo della nazione”. È un messaggio per tutte noi, perché la Casa è un luogo sicuro per le femministe di diversi paesi e generazioni dal 1983. È una minaccia politica orchestrata con consapevolezza, FN colpisce la Casa perché questa rivendica: “Tra i nostri temi resta prioritario quello legato all’autodeterminazione e alle scelte libere sulla salute riproduttiva” [8].
Forza Nuova non è l’unica organizzazione fascista che intende ostacolare la nostra autodeterminazione. Il Comitato no194, noto per le preghiere contro l’aborto all’esterno degli ospedali pubblici, e il suo presidente Pietro Guerini ritengono che la battaglia contro l’aborto sia una battaglia contro il comunismo in sintonia con le politiche fasciste, spiegando che “sul piano storico e oggettivo, nessuna dittatura fascista ha mai legalizzato l’aborto volontario, il MSI ha votato contro la 194 nel 1978 in Parlamento e ha invitato nel 1981 i propri elettori a esprimersi per l’abrogazione della legge”.
Non è difficile capire perché siamo insorte quando il governo “Lega-5 Stelle” ha inopportunamente istituito il Ministero della Famiglia per affidarlo a Lorenzo Fontana, noto per la sua volontà di abrogare la 194 e membro del Comitato no194. E giusto per chiudere il cerchio: Fontana è anche noto per aver partecipato a un dibattito con relatori Roberto Fiore, il leader di FN, e suo figlio Alessandro, che — guarda un po’ — è il leader di ProVita. Si direbbe che la battaglia contro l’aborto sia un affare di famiglia. Non ci resta che unire i puntini per capire che da un lato le nuove organizzazioni si mascherano dietro diritto alla salute e raccolte firme in odor di diritti umani, dall’altro le vecchie file continuano a minare la stessa possibilità che l’aborto sia depenalizzato proponendo un ritorno al codice fascista.
Oltre a Forza Nuova e al Comitato no194, c’è CasaPound, che adotta ancora un’altra tattica. Nel tentativo di defilarsi rispetto al posizionamento sull’aborto, sposta l’attenzione sul ruolo delle donne, descrivendo come unico percorso desiderabile quello della maternità e asserendo che nessuna donna può dirsi realizzata senza. I militanti di CasaPound si definiscono “fascisti del terzo millennio”, neofascisti che, come FN, individuano “il nemico” nelle femministe.
FN affigge striscioni e CasaPound organizza seminari e campagne sotto il titolo “Tempo di essere madri”. Con lo slogan “fuori i clandestini, dentro i bambini italiani”, ha lanciato una proposta di legge, “Reddito nazionale di natalità”, che prevede l’esclusione di bambin* e genitor* non italian* e delle persone disoccupate, in una perversa combinazione di razzismo, sessismo e classismo (Rosati 2018, pp. 162-163). Evidentemente per i neofondamentalisti il non-nato italiano vale più di una bambina non italiana.
Pro-life e vecchi e nuovi fascisti, cattolici e conservatori formano un fronte unico, l’alleanza neofondamentalista che sceglie come campo di battaglia “l’area delle politiche sessuali e dei valori familiari” (Cooper 2013, p. 105). Non è una coincidenza che negli USA e in Europa l’alleanza neofondamentalista abbia cominciato a delinearsi a metà degli anni Settanta: da allora è stato necessario confrontarsi con i movimenti femministi e LGBTQI+.
Nei primi due decenni del XXI sec. le politiche istituzionali nazionali hanno dedicato un’ossessiva attenzione a sessualità e riproduzione. Qui basterà ricordare il Piano Nazionale di Fertilità (PNF, 2016), voluto dalla Ministra della Salute Lorenzin. Insieme al piano, introdotto dallo slogan “Difendi la tua fertilità, prepara una culla nel tuo futuro”, la ministra lanciava una campagna composta da dodici poster.
Lo slogan “prepara una culla per il tuo futuro!” viene iscritto nelle nostre pance, mentre la fertilità, che dovrebbe essere radicata nei corpi e materia di scelta soggettiva, viene violentemente ricollocata: trasformata in bene comune e rappresentata come acqua proprio quando le risorse naturali vengono privatizzate. La bandiera italiana e l’appello alla Costituzione assieme alle parole della Ministra rendono indubbio che in gioco c’è proprio la ri/produzione della nazione:
Tra dieci anni cioè nel 2026 nel nostro paese nasceranno meno di 350mila bambini all’anno, il 40% in meno del 2010. Un’apocalisse. Saremo finiti dal punto di vista economico, e da quello della nostra capacità vitale. È questa la vera emergenza italiana [9].
Evocando uno scenario fascista – l’idea che la nazione debba difendersi per sopravvivere all’apocalisse – il PNF ci esorta a sorvegliare organi riproduttivi e gameti usando le nuove tecnologie e i nuovi dispositivi del sé. Le critiche sono state tali da spingere la Ministra a proporne una nuova versione, se possibile peggiore della prima, esplicitamente razzista. Questa volta uomini e donne sono ritratti/e insieme ma divisi/e dagli stili di vita. Le “buone abitudini da promuovere” sono rappresentate da persone bianche e sorridenti in primo piano, mentre “i cattivi compagni da abbandonare” sono rappresentati da persone alquanto fuori fuoco, dalla pelle scura, tutte intente a fumare.
L’acronimo PNF potrebbe essere sciolto con Partito Nazionale Fascista (non si sono accorti della coincidenza?) [10]. Invece di investire in servizi e infrastrutture sociali, il Ministero della Salute intende raggiungere lo stesso scopo dei fascismi (riprodurre la nazione e fissare i ruoli di genere) operando però con dispositivi biomedici individualizzanti e privatizzati.
Il PNF si rivela per ciò che è: un’ingiunzione a noi e ai nostri corpi, una riproposizione dell’esercizio del controllo demografico a mezzo statale con fini economico-normativi di medio/lungo periodo attuato mediante il ricorso alla biomedicina. Non sorprende che una misura nominalmente finalizzata alla ripresa della natalità non preveda nessuno strumento di welfare. Il welfare è il prodotto finale del PNF, ciò che noi stesse siamo chiamate a produrre quando siamo incitate a procreare. Il PNF è un piano di differimento della cura dal pubblico-statale al privato-individuale.
Dai media agli ospedali l’obiettivo è preservare, migliorare e usare la nostra fertilità, tramite la diffusione di dispositivi para-medicalizzanti per “ritornare a una crescita della popolazione, che garantisca il futuro riproduttivo del nostro paese” (PNF 2016, p. 21). La tua fertilità è un bene comune (leggi: è proprietà della nazione)! Accoppiati stabilmente e metti a valore i tuoi gameti! Basta che tu sia etero e monogama e potrai accedere alle tecniche di fecondazione assistita!
Il Piano Nazionale di Fertilità è un dispositivo governamentale biopolitico e neoliberista, mira a circoscrivere il dilagare del desiderio non riproduttivo e non eterosessuale, e per arginarlo si colloca nell’arena biomedica. Perché quella biomedica è un’arena politica, uno spazio conflittuale. È sufficiente ricordare la percentuale di obiettori di coscienza, tanto alta da rendere evidente come cliniche e ospedali siano diventati zone di conflitto, cruciali per controllare i nostri corpi. Ritengo che il Ministero della Salute giochi a ribasso nel dichiarare che siamo al 70% di obiezione, ma se volessimo credere attendibile il dato, non sarebbe già allarmante?
Le ragioni che spiegano questo spropositato abuso dell’obiezione di coscienza si possono rinvenire nel testo della legge 194 e nella storia che abbiamo ripercorso, ma i neofondamentalisti hanno senz’altro contribuito ad aumentarlo facendo leva su antinomie e lacune della legge. A dirla tutta, la 194 non garantisce per tutte e in ogni caso l’accesso all’aborto. La legge è costruita in modo tale da rendere l’aborto una concessione, una extrema ratio da ammettere in alcune circostanze. Le donne possono interrompere la gravidanza solo per motivi di salute, economico-sociali e quando è a rischio la loro vita (art. 4). In nessun caso è ammessa una motivazione come “non voglio diventare madre”.
In ogni caso dobbiamo fornire prove, rispondere a medici che vagliano la nostra condizione e le nostre capacità decisionali. L’art. 5 introduce un limite – che veste il camice del medico – alla nostra autodeterminazione: “Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell’incontro il medico […], di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza […], la invita a soprassedere per sette giorni”. Non rimane che chiedersi: prima di quei sette giorni non eravamo capaci di pensare, di prendere decisioni? È il potere del medico che ci investe di raziocinio e ci illumina d’un tratto?
Il potere del medico è forse il vero oggetto di tutela della 194. Si dice che la 194 sia un tentativo di bilanciare i diritti della donna e del concepito. Ne siamo così convinte? L’art. 9 sull’obiezione di coscienza, cosa fa se non consegnare al personale medico-sanitario il potere di decidere per noi? Gli obiettori sono tutelati dalla legge a disubbidire alla stessa. Il legislatore all’art. 9 non fissa parametri, o soglie d’allarme, ammette l’obiezione senza chiedere nulla in cambio, per cui i medici possono rifiutarsi di eseguire aborti senza dover prestare alcun servizio supplementare. Il risultato è che potremmo ritrovarci senza più personale non obiettore.
Il piano dei neofondamentalisti risulta ora chiaro: non chiedono l’abrogazione della legge, si alleano con medici e istituzioni. Quest’alleanza è stata simbolicamente siglata da papa Francesco che, in occasione dell’anniversario dell’Ass. Medici Cattolici, ha invitato i 7.000 presenti a compiere “scelte coraggiose come l’obiezione di coscienza […] perché, per la Chiesa Cattolica, l’aborto è un problema scientifico” [11].
Convissuto radicato 3: #Moltopiùdi194
Outside the Law, which is Language
Kathy Acker
Se i neofondamentalisti tentano di far passare l’aborto per “problema scientifico”, per i femminismi l’aborto è il crocevia di radicali lotte politiche. A partire dai tardi anni Sessanta, l’ambito delle scelte sessuali e riproduttive ha costituito il punto di partenza per la creazione (e la diffusione) di forme di vita alternative, di modalità non-fasciste di rigenerazione collettiva. Dalla fine degli anni Sessanta i movimenti femministi hanno innescato dei cambiamenti culturali capaci di dispiegarsi sul medio-lungo periodo.
Quando è stato emanato il Piano Nazionale di Fertilità, quando ProVita ha lanciato la sua campagna contro l’aborto e Forza Nuova ha attaccato la 194, quando il papa ha invitato i medici a fare obiezione, le donne stavano già vivendo vite non fasciste. Questo punto merita d’esser spiegato. Gli attacchi dei neofondamentalisti sono in realtà delle reazioni all’ineluttabile processo di diffusione dell’autodeterminazione delle donne, uno degli effetti migliori e più duraturi della rivoluzione femminista cominciata alla fine degli anni Sessanta.
È nell’autodeterminazione delle donne che vanno rintracciate le cause di quello che governi e istituzioni chiamano “calo delle nascite”. Non è la crisi economica, non è il precariato: “La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante” (Rivolta Femminile [1970] in Lonzi 2010, p. 7) e sceglie direzioni altre da quelle della maternità. Non intendo negare la realtà degli effetti di consuetudini inammissibili, ancora oggi occorre denunciare: “Lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione” (Ibidem).
Tuttavia ciò non può indurci a una mancata lettura della complessità. Il pensiero e la prassi dei femminismi ci hanno cambiate. Molte di noi non diventano madri neppure dopo aver firmato un buon contratto oppure lo diventano senza avere un soldo in tasca (oppure si indebitano per farlo). Alcune di noi diventano madri ma in ogni caso decidono di farla finita con la famiglia.
L’antropologia naturale per la divisione binaria dei generi non funziona più: le donne non nascono caritatevoli incubatrici di cuccioli umani e gli uomini non sono tutti lupi che li mangeranno. E siccome lo scopo di questo libro non è spiegare le ragioni della scelta pro-riproduzione, non chiedetemi le ragioni di chi madre ci diventa. Altre hanno fatto (e faranno) questo tipo di analisi meglio di me. Io, che mi sono ritrovata un utero e non ho capito bene perché siccome lo ho sono obbligata a usarlo (o metterlo a valore), sono più interessata a dimostrarvi che c’è tutta un’etica da inventare a partire dalle forme di vita non riproduttive, dalle scelte di vita non fasciste.
La ricerca Eurisko sulle scelte delle donne eterosessuali tra i 18 e i 55 anni che dichiarano di non voler diventare madri riporta le loro ragioni e condizioni di vita: hanno un buon livello d’istruzione, redditi medi e “un codice etico personale che include i valori dell’ecologia, dell’ambiente e della sostenibilità”. Rispetto alla media, le donne che non vogliono riprodursi “sono maggiormente orientate all’ambito outdoor, non hanno come focus principale di vita la famiglia o la casa, ma investono maggiormente su attività esterne, extradomestiche” [12].
Cos’è questa se non una metamorfosi sostanziale delle forme di vita, un divenire non-fascista che prende corpo su scala molecolare, nei nostri sé incarnati?
Le attiviste femministe sono riuscite a dare risonanza a questa metamorfosi molecolare nello spazio pubblico, rendendo visibili le forme di vita non fasciste, trasformandole in vie di fuga collettive e in strumenti di lotta per rispondere all’avanzata neofondamentalista, non limitandosi alla difesa dell’esistente, ma rivendicando #moltopiùdi194. Cominciamo questo viaggio con lo Sfertility Game, creato nel 2016 dalla Favolosa Coalizione, una rete di soggettività ed esperienze politiche transfemministe e queer bolognesi. Per spiegare in cosa consiste leggiamo la Favolosa:
Il 22 settembre 2016 è stato celebrato in Italia il primo Fertility day, promosso dal Ministero della Salute, per promuovere il Piano Nazionale Fertilità: un progetto politico che reinterpreta in chiave neoliberista la concezione fascista delle donne come produttrici di figli per la patria e afferma il primato della sessualità eterosessuale e riproduttiva. La Favolosa Coalizione, rete di soggettività ed esperienze politiche trans-femministe e queer bolognesi, ha lanciato per l’occasione lo “Sfertility Game”, un Gioco dell’Oca da piazza che, con ironia e spirito dissacratorio, sovverte le logiche ministeriali e governative che vogliono ridurre i corpi a gameti e annullare l’autodeterminazione delle scelte, compresa quella consapevolmente non riproduttiva. Lo Sfertility Game nasce da un lavoro collettivo intorno alle tavole disegnate dall’illustrator* Percy Bertolini, una pratica politica di attivismo altamente creativa, comunicativa e partecipativa. [13]
Lo scopo del gioco è far risaltare come siamo diventate soggettività incontrollabili, come i nostri desideri e le nostre scelte stiano già andando in direzioni molto diverse da quelle auspicate dal Piano Nazionale di Fertilità. Tuttavia il gioco vuole anche dimostrare che c’è un prezzo da pagare, che molti sono gli ostacoli che fronteggia chi intende vivere una vita non fascista. Se lanciamo i dadi e finiamo sulla casella numero 17 (Fig. 3), incontriamo una donna che ha abortito fuori dal Sistema Sanitario Nazionale e che per questo deve pagare 10.000 euro di multa [14].
Fig. 3. Sfertility Game, Casella 17, Favolosa Coalizione, 2016.
Alle caselle 9, 10 e 11 (Fig. 4) incontriamo le difficoltà materiali delle donne madri. Certo che ci viene da ridere appena finiamo sulla casella 11, ma è una risata amara, quella di chi sa che a fare l’equilibrista tra produttivismo aziendale e familiare ci si guadagna solo un esaurimento nervoso. Per la Favolosa Coalizione “l’ironia è umorismo e gioco serio […], strategia retorica e metodo politico” (Haraway 2018, pp. 39-40).
Fig. 4. Sfertility Game, Caselle 9-10-11, Favolosa Coalizione, 2016.
Ma il 2016 è anche l’anno in cui Lucia Perez è stata stuprata e uccisa in Argentina, l’anno in cui il fatto che tre uomini siano stati arrestati per la sua morte non è stato sufficiente a placare la rabbia delle femministe, che hanno reagito in massa asserendo che la violenza di genere non si combatte con gli strumenti dello Stato. Preferendo la strada dell’autogestione, le femministe hanno scelto di riunirsi a Rosario in un’assemblea di più di 100.000 persone, fondando la rete globale Non Una Di Meno (NUDM) e lanciando lo sciopero delle donne per l’8 marzo. La prima assemblea italiana si è tenuta il 27 novembre 2016, in seguito alla manifestazione nazionale contro la violenza di genere del 26 novembre a Roma. Da allora, NUDM ha organizzato tre scioperi e diffuso il “Piano Femminista”.
Il cambiamento si registra anche nello spazio pubblico e i movimenti femministi irrompono in esso con tutta la radicalità dei corpi. Prendiamo ad esempio le azioni di NUDM per l’anniversario della 194, lo stesso per cui ProVita aveva affisso il poster “ti succhiavi già il pollice”. Anche per NUDM questa ricorrenza era importante, ma per motivi divergenti. Intenzione delle femministe era quella di rivendicare piena autodeterminazione sessuale e riproduttiva. Il 26 maggio 2018 a Milano e Bologna i nodi locali di NUDM hanno deciso di occupare lo spazio pubblico con una performance che evocava il romanzo di Atwood, Il racconto dell’ancella, facendolo trasbordare dalle pagine alle strade.
A Bologna NUDM e le studentesse del collettivo La Mala Educación15 (Fig. 5) hanno sfilato per le vie del centro con drappi rossi e cappelli bianchi per spogliarsi sulle note di La Rage di Keni Arkana e liberare i propri corpi-congegni semiotici, ricoperti di slogan come #moltopiùdi194, coreograficamente disposti in linea retta allo scopo di bloccare il traffico, con le mani alzate a formare un triangolo, il gesto femminista transnazionale e transgenerazionale di rivolta.
Fig. 5. #moltopiùdi194, La Mala Educación, 2018.
Non dubito che “gli asceti politici, i militanti cupi, i terroristi della teoria, coloro che vorrebbero preservare l’ordine puro della politica e del discorso politico” (Foucault 2012, p. 7) obietteranno che questa performance non rappresenta che un mezzo per aumentare la visibilità delle forme di vita alternative, ma non per ottenere più “diritti”. Capiranno che il processo creativo che ha portato alla performance è una pratica politica affermativa in sé? Seguendo Foucault, non è possibile inquadrare le lotte femministe come lotte dialettiche (non è sufficiente dire che si tratta di lotte antiautoritarie…), perché esse si danno come pratiche del sé capaci di aprire spazi di controsoggettivazione.
La performance che ha testualmente riscritto il romanzo fantascientifico di Atwood è stata il risultato di diversi incontri in università organizzati dalla collettiva transfemminista La Mala Educación, di un processo comune di costruzione di saperi elaborato a partire da esperienze e desideri personali. La decisione di riscrivere la fine del romanzo, di sovvertirne l’esito strappando drappi e lacci nello spazio pubblico non poteva che venire da una collettiva ispirata dal Manifesto cyborg: “Il confine tra fantascienza e realtà attuale è un’illusione ottica” (Haraway 2018, p. 40).
Bisogna poi aggiungere che questa, come altre performance femministe, non spunta out of the blue, ma si inserisce in un più articolato percorso culminato nella nascita de La Mala Consilia, sportello autogestito che si occupa di salute sessuale e riproduttiva collocato in zona universitaria a Bologna. Ed è grazie a gruppi come La Mala Consilia e Obiezione Respinta16 che posso dirmi parte di un transfemminismo che non attende “dalla politica che ristabilisca i ‘diritti’ dell’individuo” (Foucault 2012, p. 12), che preferisce autogestire la propria salute, creare reti tra donne, soggetti non eteronormati e medici per far circolare saperi minori.
La medicina è per noi spazio da rivoluzionare perché esercita “un potere incontrollato sui corpi degli individui, sulla loro salute, sulla loro vita e sulla loro morte” (Foucault 1989, p. 240). La nostra rivoluzione si svolge in interstizi conflittuali, dove sperimentiamo forme di vita non fasciste, impegnate a lottare per istanze che non siamo disposte a barattare, desideri su cui non vogliamo concertare: il futuro non è la promessa aleatoria condensata nell’immagine di un bambino mai nato. La cura non esiste solo nel rapporto “mammà-bebè-papà”, non è la biologia a stabilire le geografie dei nostri affetti.
Il futuro è il nostro desiderio di vivere mondi in cui le forme di riproduzione e sessualità non conformi alle norme eterosessuali e le scelte non riproduttive abbiano pieni spazi di esercizio e autonomia: è il presente che costruiamo ogni giorno nelle case e nei centri delle donne, nelle collettive e nelle consultorie, nei mille luoghi on- e offline dei femminismi che non smetteremo mai di ri/creare e amare.
Il futuro è il nostro desiderio di vivere in mo(n)di in cui la riproduzione e la salute delle persone non umane conti quanto la riproduzione e la salute delle persone umane: è il presente che costruiamo ogni giorno nelle comunità compostiste che occupano spazi urbani e non, che autogestiscono territori materiali e virtuali, nelle collettività di bio-hacker più o meno apprendist* che autorganizzano rifugi per accogliere animali non umani, nei movimenti antispecisti che smontano le gabbie e liberano i mammiferi dalla prigionia degli allevamenti industriali (Bertuzzi, Reggio 2019).
La cura non esiste solo nelle relazioni tra persone umane: combatteremo lo specismo che domina il presente e se dovremo trasformare la biologia in fantascienza trans/ecofemminista ci troverete pronte. Non sarà l’ipervalorizzazione del potenziale vitale ipoteticamente insito nel non-nato umano a orientare l’etica dei mondi a venire. Tutto troppo astratto, troppo poco radicato nella carne e nella materia.
Le biopolitiche pro-vita occidentali sono antropocentriche e suprematiste, misogine e fasciste. Nutrono il culto dell’eccezionalismo umano, sono cioè convinte che la natura umana sia unica e che non ci sia limite all’azione dell’uomo, e per la sua perenne rigenerazione devastano ecosistemi e uccidono altre forme di vita. Lanciano strali sul calo demografico contro ogni evidenza, parlano di “apocalisse della nazione” non appena il fertility rate (tasso di fertilità) scende sotto la soglia del 2.1, mistificando i termini del problema. Che la specie sapiens non sia a rischio di estinzione è un fatto, rientra nella categoria “minor preoccupazione”, perché “molto ampiamente distribuita, adattabile, in attuale aumento e non esistono rilevanti minacce che possano risultare in un declino della popolazione complessiva” (International Union for Conservation of Nature – IUCN 2008).
Il fertility rate del futuro eco/cyborg/transfemminista non misurerà le nascite umane per donna in età riproduttiva, abbiamo già cominciato a sovvertire l’indicatore! Il fertility rate imploderà perché incommensurabile è la biodiversità, quando l’uomo smette di essere l’unico da riprodurre. Mettendoci a contare l’incredibile varietà di esserini che popola il pianeta perderemo forse contezza dei confini stabiliti da biologia specista ed economia capitalista, riconosceremo forse che siamo e saremo sempre parte della natura. Non siamo tra gli animali “la specie che…”, siamo gli animali che dunque siamo, non possiamo che pensare con loro, perché non siamo altro da loro (Timeto 2020, p. 201).
Siamo la naturacultura che dunque siamo, la cura e il lavoro ri/produttivo del futuro che stiamo costruendo si fanno interregno, anelano alla giustizia multispecie e non alla supremazia dell’umano. Nella cornice del compostismo e del postumanesimo femminista #moltopiùdi194 significa giustizia riproduttiva multispecie e zoecentrata.
Possiamo tenere insieme le lotte per l’autodeterminazione delle donne e delle soggettività LGBTQI+ con quelle per la sopravvivenza della Terra, occorre solo immaginare altri mo(n)di ri/produttivi. L’impiego delle nuove tecnologie potrebbe essere parte di questo futuro non eteronormato, antispecista e geocentrato. Fecondazione assistita ed ectogenesi, ingegneria genetica e informatica possono rivelarsi potenti strumenti per sovvertire l’attuale ordine familista ed eccezionalista, per interrompere la sofferenza ecologica di popoli ed ecosistemi.
Non deleghiamo agli esperti del tecno-capitale l’invenzione e la gestione di dispositivi e tecnologie, non riproduciamo l’umano a scapito del non-umano. Interroghiamoci e immaginiamo la fanta/tecnoscienza femminista, intessiamo parentele postumane, perché le possibilità di vita siano comuni, mai più antroponormate.
1 Così chiamati per il fatto che lo strumento chirurgico usato per il raschiamento ricordava un cucchiaio e per il costo inaccettabile dell’aborto (Balzano, Flamigni 2015).
2 I gruppi di self-help praticavano l’autovisita ginecologica, grazie allo speculum, e il controllo mestruale per interrompere la gravidanza. La tecnica Karman constava nell’aspirazione endouterina.
3 Con l’espressione pro-life (per la vita) i neofondamentalisti descrivono la loro posizione di condanna di IVG ed eutanasia, mistificando i termini del problema. Non si tratta di distinguere tra chi è per la vita e chi è contro. Per alcun* è più opportuno ricorrere a choice, scelta, distinguendo tra chi è no-choice e chi è pro-choice, ma la parola “scelta” rimanda alla morale individualista. La soluzione la offre Gaard che propone di parlare di “giustizia riproduttiva”. Il distinguo da fare sarebbe tra pro-reproductive justice and no-reproductive justice (Gaard 2010). Pur trovando efficaci queste osservazioni critiche, qui si è scelto di seguire la terminologia di uso comune per permettere un’immediata identificazione dei movimenti anti-abortisti.
4 “Il feto e la terra devono la loro esistenza ‘pubblica’ alle moderne tecnologie di visualizzazione, inclusi computer, videocamere, satelliti, apparecchi ecografici, fibre ottiche, televisione, microcinematografia e simili” (Haraway 2000, p. 236).
5 Carlo Casini in Così è (se vi pare). Il movimento per la vita in Italia, documentario di Irene Dionisio, Fluxlab, 2012.
6 Ibidem.
7 Strategia comunicativa databile agli anni Sessanta, quando il feto della foto di Nilsson, in copertina sul Life del 1965 The drama of Life before birth, viene “presentato come cosa in sé” (Haraway 2000, p. 240). Già prima degli ultrasuoni, ci spiega Piontelli (2020, p. 23): “Qualsiasi dettaglio che possa ricordare la nostra fisicità e la nostra dipendenza fisica dalla donna viene cancellato. La donna incinta sparisce e con lei qualsiasi particolare meno che carino, tipo la corporeità sanguinolenta della placenta”. Ulteriore prova dell’oblio delle donne è l’ultimo agghiacciante manifesto di Pro-vita (esposto nelle principali città italiane nel dicembre 2020) nel quale una donna in verità compare, peccato venga ritratta stesa al suolo, probabilmente morta dal momento che lo slogan recita che “La ru486 mette a rischio la salute della donna”.
8 www.casainternazionaledelledonne.org/index.php/it/chi-siamo
10 Con Federico Zappino avevamo sciolto l’acronimo con “Partito Nazionale della Fertilità”. operavivamagazine.org/il-partito-nazionale-della-fertilita/
11 www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/november/documents/papa-francesco_20141115_medici-cattolici-italiani.html. Solo a una lettura superficiale sembra bizzarro che la Chiesa formi le condotte dei medici che poi lavorano negli ospedali pubblici, si tratta invero dell’evoluzione della direzione di coscienza che il cristianesimo ha sempre esercitato: potere pastorale in clinica.
13 archivio.bilbolbul.net/BBB16/?p=907
14 Il d.l. n. 8 in materia di depenalizzazione (Gazzetta Ufficiale n. 17, 2016) introduce una sanzione che aumenta da 50 euro fino a 5-10mila euro la somma da pagare in caso di aborto fuori da tempi e luoghi individuati dalla 194. Ma se abortire in ospedale è sempre più difficile a causa del dilagare dell’obiezione, cosa fa questa depenalizzazione se non colpire le donne che sono costrette a trovare altre strade proprio dall’inadeguatezza della legge?
15 Più info al blog www.malaconsilia.net