Bernard Stiegler. La questione del noi
La postfazione del volume 1 de La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale di Bernard Stiegler. Traduzione di Rosella Corda, Meltemi 2021, collana Culture Radicali. L’estratto è comparso su Tropico del Cancro.
Bernard Stiegler. La questione del noi. Postfazione. Dopo aver dedicato ai lettori del Fronte Nazionale Amare, amarsi, amarci ho sostenuto, durante una trasmissione radio1, che fosse il caso di rivolgerci a costoro con amicizia.
So bene che questo proposito può risultare problematico e perfino scioccante, e che esso solleva altresì la questione: “qual è questo noi?” Ma non si tratta tuttavia né di una provocazione, né di una posa, ma piuttosto della base del mio pensiero, e del mio pensiero del noi.
Ciò che qui chiamo “miseria del simbolico”, è innanzi tutto quella di cui soffrono e testimoniano, per quanto orribile possa essere o apparire la loro testimonianza, gli elettori di questo partito di estrema destra; partito con cui è escluso, evidentemente, discutere.
Rifiutare di discutere con il Fronte Nazionale non significa affatto rifiutare di discutere con i suoi elettori. E dirò inoltre che proprio parlare essenzialmente a loro, prima che agli altri e anche se indirettamente, nonostante sia per me averne la preoccupazione proprio lì dove ESSI NON POSSONO GIUSTAMENTE intendermi, e per quanto insopportabile possa essere la realtà di cui essi fanno così testimonianza tramite il loro voto, resta ai miei occhi una priorità assoluta come la sola possibilità di scambio simbolico, che resta loro, prima del peggio.
E quando uso l’espressione “ai miei occhi”, parlo tanto dei miei occhi di filosofo quanto dei miei occhi di cittadino e di uomo capace di pudore, di vergogna: di aidos.
Eris e stasis
È del tutto avvilente – e quasi vergognoso – che coloro che pretendono di occuparsi di politica e agire politico non vedano che non ci sono che due possibilità:
– o si accetta di parlare con/verso/per gli elettori del Fronte Nazionale e ci si indirizza a loro prioritariamente, in quanto essi sono i testimoni più diretti della sofferenza che degrada la vita pubblica, e questo a prescindere da quale possa essere il loro proprio discorso su questo punto, che rimane, per quanto miserabile lo si possa trovare, una testimonianza, e il negarlo sarebbe vergognoso: sarebbe rifiutar loro l’umanità;
– o si rifiuta loro lo statuto di cittadini e, in tal caso, non si rimarrà troppo tempo al riparo dalla guerra civile, perché questa è la posta in gioco.
La guerra civile, ciò che tormenta i Greci, i quali più volte l’hanno conosciuta, e che chiamano stasis.
Per quanto mi riguarda, ritengo con Aristotele che la condizione della vita pubblica sia la philia (di cui la città, polis, fu a lungo il nome e a cui io guardo ancora, in mancanza di meglio, malgrado, come ho già esposto nel precedente capitolo, questo nome sia ormai obsoleto, considerato che il processo di individuazione psichica e collettiva occidentale è oggi compiuto: argomento di cui parlerò ne La Technique et le Temps 4). La condizione della vita pubblica è la philia, vale a dire familiarità e amicalità, come traduce bene Jean Lauxerois. Amicalità senza la quale alcun dialogo è possibile.
Ora, il dia-logo è la condizione dello spazio pubblico: della sua dia-cronia, al di là di ogni sin-cronia totalizzante di un “si” che non ha più niente di un noi. E smettere di credere al dia-logo sarebbe un segno terribile di miseria tanto politica e spirituale quanto simbolica e filosofica. Non dubitare della sua possibilità, però, sarebbe aver già cessato di dialogare; ciò che chiamiamo “chiacchierare”. Il dia-logo è inquieto. È ciò che altrove ho chiamato la fragilità della libertà2, compreso il soli-loquio che è un “dialogo interiore” di cui parla Gadamer3. Ma una filosofia o una politica che non credesse al dia-logo non sarebbe che filosofia della vanità e vanità della filosofia, politica della vanità e vanità della politica.
Étienne Tassin ha certamente ragione a ribadire, con la Arendt e contro Habermas, che la dimensione politica non si esaurisce nel linguaggio. Ma il dia-logo di cui parlo qui non è semplicemente il linguaggio: è lo scambio simbolico, compreso quello sostenuto da ogni attività lavorativa. Ed è anche così che Marx definì il proletario: in quanto privato della possibilità di individuarsi attraverso il lavoro, come direbbe Simondon, egli non può signi-ficare. E siccome il proletario non ha altro “passatempo” oltre il lavoro, egli è puramente e semplicemente privato di ogni esistenza simbolica, vale a dire di ogni esistenza tout court; se non nella lotta, ciò che capirono, a volte bene a volte male, i partiti comunisti.
Étienne Tassin tenta di ripensare esattamente l’esistenza estetico-simbolica nell’agorà della città, la quale conferisce il diritto della città al cittadino. Esistenza che non è possibile se non nel circolo di una philia che condividono, peraltro, Estia, dea del fuoco, ovvero dello spazio privato, e Ermes, dio degli scambi e della circolazione nello spazio pubblico del comune.
Tuttavia, se pure il dia-logo politico è uno spazio di pace, non è uno spazio di consenso senza conflitto, ma al contrario: Esiodo tesse le lodi dell’eris, come emulazione figlia del polemos di Eraclito (il combattimento), da cui sorge il migliore, l’ariston di cui parla anche la Arendt4. Ma Esiodo ne biasima anche il contrario, di questa eris, intesa come l’avversità, poiché Eris, “figlia della Notte”, è anche – come l’eris che, in lingua corrente greca, designa la discordia – quella che agita la lotta tra coloro che pure si appartengono nella philia.
Questa lotta non ha niente a che vedere con la guerra, poiché non è stasis: essa è il conflitto tra fratelli che la giustizia può troncare, così di Esiodo e di Perseo, anche se la giustizia può rivelarsi ingiusta, e essa è anche il conflitto tra i cittadini e i partiti. Ed è così anche perché la stasis non è la fatalità nella città a cui condurrebbe qualunque eris, qualunque disaccordo. Tassin ha torto a tradurre stasis con “discordia”: questa concezione platonica del conflitto nella polis è quanto occorre superare. La stasis significa sì discordia, ma ci sono diverse forme di discordia, di cui l’una, l’eris, è il gioco più caratteristico dell’agorà e dell’agone in cui essa consiste; e bisogna dunque tradurre stasis con guerra civile.
Marx tentò di pensare proprio questo ma fallì, non cogliendo la dimensione simbolica, estetica ed erotico-libidinale (pulsionale) della questione, quindi non cogliendo, forse, il senso politico, al di là dell’economia politica, di ciò che egli chiamò la lotta di classe, pur intravedendola nel suo primo periodo attraverso la critica a Hegel5.
La polis è essenzialmente il disaccordo del multiplo che compone l’uno promesso dal divenire politico. Questo disaccordo, che è il dinamismo stesso dell’individuazione psichica e collettiva politico-occidentale, è proprio ciò che voleva annullare Platone, ed è anche quello a cui mira la tendenza asintotica che conduce a ciò che ho mostrato attraverso l’allegoria del formicaio.
Il platonismo come metafisica si è imposto e concretizzato, è divenuto Wirklichkeit, realtà effettiva. Il formicaio è l’allegoria della de-composizione del dia-cronico e del sin-cronico, che non possono costituirsi se non nella loro composizione, ovvero nel rapporto teso e trasduttivo dove si formano i tensori di singolarità costitutivi di questa “economia libidinale” di cui si parla nel Disagio della civiltà.
È attraverso la negazione dell’ipomnesico, vale a dire della dimensione tecno-logica di ogni scambio simbolico, che il platonismo arriva a imporre la riduzione della téchne a un puro calcolo, essendo il fine di questa metafisica il controllo di ogni affetto e la negazione del diritto all’interpretazione, vale a dire alla singolarità libera e indeterminata delle anime che abitano i corpi.
Per questo gli artisti e i poeti sono, in questo platonismo oggi concretizzato dal capitalismo culturale, dei nemici (tuttavia sempre acquistabili: il denaro può quasi tutto, se non assolutamente tutto), mentre i lavoratori non possono che essere schiavi cui è interdetta ogni simbolizzazione circa il modo singolare della propria diacronia, ciò che Simondon chiamava “perdita di individuazione”.
Ora, questa miseria del simbolico, che si estende attualmente ben oltre i proletari, dal momento che essa colpisce i consumatori che noi tutti siamo, poiché essa colpisce i nostri bambini, i nostri amici, i nostri familiari, inquina i nostri ambienti di vita più intimi, come l’aria che in certi luoghi del pianeta avvelena tutti gli abitanti, ricchi o poveri, proprietari o proletari, rendendo i luoghi inabitabili; questa miseria è tanto più insostenibile poiché simbolica, e non solamente fisica; come se i simboli fossero condannati a rivoltarsi in diavoli.
Ecco perché l’avvenire è così minaccioso.
E, ripeto, è così anche perché, nel conflitto che mi oppone agli elettori del Fronte Nazionale, io continuo a rivolgere a loro, essenzialmente, la mia amicizia.
NOTE
1 Tout arrive, trasmissione di France Culture condotta da Marc Voinchet e mandata l’8 dicembre 2013.
2 B. Stiegler, Passer à l’acte, op. cit.
3 J. Derrida, Béliers. Le dialogue ininterrompu: entre deux infinis, le poème, Galilée, Paris 2003.
4 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2012.
5 K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Editori Riuniti, Roma 2016, in cui denuncia il “misticismo logico”, principalmente come annullamento della singolarità, e dove egli scrive che, nel diritto hegeliano, “l’universale appare ovunque sotto le specie di un determinato, di un particolare quando il singolare non accede da nessuna parte alla sua vera universalità” (traduzione mia).