Parinetto. Alchimia e Musica
Un estratto dal volume di Luciano Parinetto. Alchimia e Utopia, Nuova edizione curata dal Gruppo Ippolita, con una postfazione di Federico Zappino, Mimesis 2024, Collana Selene curata dal gruppo di ricerca Ippolita.
Parinetto, Alchimia e Musica. “Probabilmente, nell’età più arcaica dell’alchimia, la musica non aveva tanto il compito di simboleggiare, bensì quello di evocare. Si trattava, cioè, forse di “formule vibratorie, che, modulate, cantate nella maniera appropriata, permettono di suscitare questo o quel fenomeno nella materia prima”.
Insomma: un mantra.
Uno studioso contemporaneo dell’alchimia operativa dà tuttavia una ragione più riposta. Secondo lui, la terza fase dell’Opus, che corrisponde alla cottura dell’uovo filosofico, produce fenomeni musicali. “L’uovo in incubazione fa della musica”. “Si tratta di deboli sibili, che costituiscono la guida principale della terza opera…”. A seconda che il peso dell’uovo filosofale aumenta, vengono da esso emesse delle note musicali. Nei sette giorni di cottura si fanno dunque sentire sette note in scala crescente.
L’alchimista che non vede quanto nell’uovo accade, lo controlla, tuttavia, per mezzo di quella musica!
Le sette note accompagnano i sette giorni della settimana alchemica dedicata alla schiusura dell’uovo, sicché v’é anche una corrispondenza astrologica con quell’evento, visto che i giorni della settimana portano i nomi dei pianeti: ciò sottolinea il rapporto micro/macrocosmico durante il perfezionamento dell’Opera. Canseliet ricorda, a questo proposito, la Tabula smaragdina e il suo “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso e viceversa. L’astrologia si dimostra inseparabile dall’alchimia. Nel momento in cui mutano i regimi, nel laboratorio dell’alchimista, i pianeti passano…”
“Al momento della cottura i pianeti passano. Non vedete i colori, perché essi si succedono all’interno dell’uovo. Un uovo chiuso non può essere aperto, almeno se si segue la via definita secca. Ma, se non si possono vedere i colori, si ascoltano i suoni dei pianeti che corrispondono ai colori”
È questa una delle caratteristiche che più differenziano l’alchimia dalla chimica, l’alchimia, infatti, “opera in armonia, in accordo intimo col cosmo. Questa intimità è triplice; essa ingloba l’alchimista, la sua materia e il cosmo”.
Il passaggio dei pianeti, durante la cottura, ha un’eco musicale, si presentifica mediante una gamma musicale: “Si odono bene queste note. Si tratta di una specie di piccolo sibilo […]. Non è singolare che si sia chiamata questa gamma cromatica, vale a dire colorata? […]. D’altra parte molti musicisti si sono occupati di alchimia. L’alchimia è l’arte della musica. Essa obbliga a porre in questione gli intervalli musicali” . Canseliet pare qui ricollegarsi all’Adrian del Doktor Faustus thomasmanniano!
La musica era ed è una cosa sola con l’operare dell’alchimista.
“Una delle definizioni medievali dell’alchimia non era forse l’arte della musica?” . Un testo, spesso citato nell’Aurora Consurgens, la Saggezza di Salomone, paragona la trasformazione alchemica degli elementi al mutamento di note in uno strumento musicale. Ma già nella tarda antichità esisteva un trattato greco su Musica e alchimia. Nel basso medioevo c’è un trattato di Perscrutator sul rapporto fra elementi e musica (XIV secolo).
L’alchimista Norton, enumerando le arti necessarie alla fabbricazione della pietra, sottolinea particolarmente l’importanza della musica: “Componi i tuoi elementi musicalmente”. Nei suoi esiti più tardi, l’alchimia pare volere ritornare a queste origini. Ernst Bloch ricorda, infatti, che il tardo alchimista Frane Tausend aveva spostato l’attenzione alchemica dagli alambicchi al diapason musicale.
Anche l’alchimista della parola Thomas Mann fa ricoincidere – ai nostri giorni – musica e alchimia.
Non è un caso che il dottor Faust (in origine, come ancora in Goethe, alchimista) si trasmuti, nel grande romanzo di Mann, in musicista, essendo ben nota all’autore la profonda analogia fra musica e alchimia, musica e diavolo!
È interessante che, nel corso del romanzo, venga osservato, che proprio come l’alchimia “la musica è l’ambiguità elevata a sistema”.
Già esteriormente, del resto, la grafica della scrittura musicale cela misteri che il godimento estetico, più che svelare, vela. Ciò che va sottolineato è comunque la doppia dimensione della prospettiva musicale, poiché essa si rivela all’occhio, nella scrittura, e, in maniera differente, all’orecchio, nella dimensione fonica. Si tratta di due piani non sempre esattamente sovrapponibili. Sovente l’orecchio non si rende conto di ciò che l’occhio svela all’iniziato: il caso massimo è rappresentato dal “più profondo mistero della musica, che è un mistero d’identità” . Esso viene esemplificato dall’Apocalipsis cum figuris composta dal protagonista del romanzo, in cui due cori contrapposti di demoni e di angeli, pur avendo per ritmo, strumentazione e colori di musica e voci, effetti opposti, non si differenziano tuttavia nemmeno per una nota della serie o sequela musicale di cui sono composti.
Si tratta di coincidentia oppositorum del tutto alchemica! Ed a ragione Mann descrive dunque la musica come un’alchimia. Essa è infatti, secondo lui, una duplice unità (“unione magica di teologia e di gioco matematico”), che contiene “una parte considerevole di quell’insistente sperimentare e indagare a cui si dedicavano gli alchimisti e i negromanti di una volta, che pure stavano sotto le insegne della teologia, ma, nello stesso tempo, sotto quelle dell’emancipazione e dell’apostasia” .
Mann procede ad una serie di sovrapposizioni quanto mai significative: “La musica come tale, il fidanzamento con essa, il laboratorio ermetico, la fabbrica dell’oro, la composizione”! Sicché Adrian/Faust, come un alchimista, può esclamare: “Nobiliterò la materia prima, aggiungendovi il magistero e purificandola con lo spirito e col fuoco attraverso storte e lambicchi”.
Non è qui possibile seguire Thomas Mann nella complessa valutazione anche dell’alchimia (deviata?) della dodecafonia, ma vale la pena di notare che non gli era sfuggita la presenza, nell’alchimia/musica, di quell’elemento che il vecchio Naudé aveva definito abbastanza crudamente col termine meretricia e che si connette abbastanza plausibilmente ai naturalia di cui l’alchimia è indagatrice, nella “passione di esplorare i misteri della natura”.
Degna di meditazione è la valutazione che un personaggio del romanzo dà della ricerca naturale intesa come magia/alchimia (e che, nel contesto, vale anche per la musica): “I timorati di Dio non potevano fare a meno di scorgervi un contatto libertino con le cose proibite, nonostante la contraddizione che si può trovare nel considerare la creazione di Dio, la natura e la vita come territorio moralmente sospetto. La natura stessa è troppo piena di produzioni a sorpresa che danno nel magico, di capricci ambigui, di allusioni semivelate e accennanti stranamente a un mondo incerto, perché i devoti […] non debbano scorgere in queste occupazioni una temeraria trasgressione”.
Se tutto ciò vale per ogni ricerca sugli elementi della natura, a maggior ragione si potrà dire dell’alchimia: “Che l’audace impresa di scandagliare la natura, di provocarne i fenomeni, di “tentarla” mettendone a nudo l’attività mediante esperimenti, sia molto vicina alla stregoneria, ne invada anzi il campo e sia già opera del “tentatore”, era l’opinione di epoche passate; opinione degna di rispetto, se devo dire il mio parere”.
Dall’alchimia/musica il discorso di Thomas Mann ci porta alla prospettiva che mette in rapporto l’alchimia con una demonica trasgressione sessuale, giustificando, in certo qual modo, le antiche accuse di Naudé e degli inquisitori. Si tratta di un aspetto strettamente collegato alla concezione del mondo da cui muoveva l’alchimia.
Il tardo alchimista (almeno per quanto riguarda la seconda fase del pensiero) George Berkeley, a questo proposito, ancora si richiama, come tutti o quasi i suoi colleghi, alla dichiarazione del neoplatonico Giamblico, secondo il quale “il cosmo è un unico animale vivente, le cui parti, per remote che siano le une dalle altre, sono tuttavia collegate e unificate in una comune natura. Egli insegna – ed è nozione tramandata anche dai Pitagorici e dai Platonici – che in natura non si dà iato, ma una catena [Siris è appunto una catena di meditazioni!] di esseri o scala che si eleva per gradazioni impercettibili ed ininterrotte dal più umile al più eccelso, poiché ogni natura riceve forma e perfezione mediante la partecipazione ad una natura più elevata”.
Sapeva anche molto bene che: “Se crediamo agli scritti ermetici, ogni cosa è dotata di vita” . Secondo la tradizione, già Hermes Trisméghistos chiamava il metallo: animale vivente, ζῷν εμψυχον.