Rosi Braidotti. Cyborg, mostri e soggetti nomadi
Un estratto dal volume di Rosi Braidotti Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze. Casa editrice Meltemi 2020, traduzione e cura di Angela Balzano, collana Culture Radicali. L’estratto è comparso su Dinamo Press.
[Immagine di copertina: Zeen Chin]
Rosi Braidotti, Cyborg mostri e soggetti nomadi. I cyborg di Haraway, le specie da compagnia e le altre sue figurazioni, considerate insieme ai rizomi di Deleuze, suggeriscono quanto sia diventato cruciale inventare schemi concettuali che ci permettano di pensare l’unità e l’interdipendenza dell’umano, del corporeo e delle sue alterità storiche, proprio nel momento in cui in le/gli altre/i ritornano per scuotere dalle fondamenta la visione del mondo umanistica.
Occorre volgere lo sguardo a generi minori, per non dire marginali e ibridi, come la fantascienza e il cyberpunk, per trovare illustrazioni culturali adeguate ai cambiamenti e alle trasformazioni che interessano le forme delle relazioni vigenti nel nostro presente postumano.
I generi culturali minori, come la fantascienza, sono fortunatamente privi di pretese ambiziose – di tipo estetico o cognitivo – e pertanto risultano essere una rappresentazione più accurata e onesta di altre della cultura contemporanea, un genere “figurativo” più autocosciente. La ricerca di rappresentazioni sociali e culturali positive dell’alterità ibrida, mostruosa, abietta e aliena, perseguita sovvertendo la costruzione e il consumo delle differenze peggiorative, rende il genere fantascientifico un terreno di coltura ideale per analizzare il nostro modo di rapportarci a ciò che Haraway (1992) descrive affettuosamente come «le promesse dei mostri».
Lo stile di scrittura caratteristico e idiosincratico di Haraway esprime la forza del decentramento che ella innesca a livello concettuale, costringendo i lettori a risintonizzarsi, o perire. In nessun luogo la forza potenziante di Haraway è tanto visibile quanto nelle sue riflessioni sull’alterità animale, macchinica, mostruosa e ibrida. Profondamente immersa nella cultura contemporanea, fantascienza e cyberpunk compresi, Haraway è affascinata dalla differenza incarnata dalle/i altre/i fabbricate/i, mutanti o modificate/i. I suoi tecnomostri sono forieri di attraenti promesse circa possibili re-incarnazioni e differenze attualizzate. Molteplici, eterogenei, incivili, ci mostrano la via di accesso a diverse possibilità virtuali. Il cyborg, il mostro, l’animale, i classici diversi dall’umano, sono quindi emancipati dalla categoria della differenza peggiorativa e ci si presentano ora in una luce più positiva. L’intima conoscenza di Haraway della tecnologia è lo strumento che facilita questo salto di qualità; di fatto lei è una vera e propria esperta di cyborg-teratologia.
L’iper-realtà della condizione postumana nomade e cyborg non spazza via il politico né la necessità della resistenza, al contrario rende più urgente che mai impegnarsi per una radicale ridefinizione dell’azione politica. Inoltre, la materialità incarnata postumana è iscritta nei rapporti economici, come anche Chela Sandoval (1999) ha sottolineato. Il cyberspazio è uno spazio sociale altamente controverso, che esiste parallelamente a realtà sociali sempre più complesse. L’esempio più lampante dei poteri sociali di queste tecnologie è il flusso di denaro nelle borse valori governate da computer, che lavorano sempre e non dormono mai, ovunque nel mondo. Questo puro flusso di dati segna il declino delle grandi narrazioni del modernismo, eppure, come osserva acutamente Bukatman (1993), costituisce anche una sorta di grande narrazione a sestante, che segna il declino dell’umanesimo e l’inizio dell’epoca della post-umanità.
Come se non bastasse, il capitale cerca e riduce a merce i fluidi corporei: il sudore e il sangue a buon mercato della forza lavoro a disposizione in tutto il Terzo Mondo; ma anche i fluidi del desiderio dei consumatori del Primo Mondo che riducono a merce la loro esistenza trasformandola in uno stato confusionale iper-saturato. L’iper-realtà non cancella i rapporti di classe: semplicemente li intensifica. La postmodernità poggia su di un paradosso, essendo caratterizzata da un processo che punta simultaneamente a mercificare e uniformare le culture e che in realtà acuisce le disparità così come le disuguaglianze strutturali.
Un aspetto importante di questa situazione è l’onnipotenza dei mezzi di comunicazione visiva. La nostra epoca ha trasformato la visualizzazione nell’ultima forma di controllo. Ciò contraddistingue la fase finale della commercializzazione del visivo, ma ha come conseguenza anche il trionfo della vista su tutti gli altri sensi. Tale primato della vista è di particolare interesse in una prospettiva femminista, perché tende a ripristinare una gerarchia tra le diverse modalità della percezione corporea, che sovrastima la vista rispetto ad altri sensi, soprattutto il tatto e l’udito. La supremazia della vista è stata messa in discussione dalle teorie femministe, che hanno elaborato efficaci critiche della scopofilia, vale a dire l’approccio al pensiero, alla conoscenza e alla scienza centrato sulla vista. Nella cornice psicoanalitica, tali questioni hanno assunto la forma di una critica ai pregiudizi fallologocentrici articolati intorno alla vista, che Irigaray (2010) collega ai poteri pervasivi del simbolico maschile.
Fox Keller (1992) parla, invece, di una spinta avida alla penetrazione intellettiva del “segreto della natura”, esplicitando così il collegamento diretto tra la costruzione sociale e psichica della mascolinità. In una cornice più socio-politica, Haraway (1995) attacca la priorità che la nostra cultura riconosce alla comprensione logocentrica della visione disincarnata, il cui miglior emblema è il satellite/occhio nello spazio. Ella vi oppone una ridefinizione incarnata, e quindi responsabile, dell’atto del vedere, inteso come una forma di connessione all’oggetto della visione, processo da lei descritto in termini di “distacco appassionato”.
Di conseguenza non c’è tempo – e non c’è spazio – per la nostalgia. I soggetti nomadi e ibridi di Deleuze, i molteplici divenire-donna intrapresi dalle femministe, la donna che non è “uno” di Irigaray, i cyborg di Haraway non meno della nuova Medusa di Cixous (1975), nel vecchio immaginario sociale sono spesso descritti come mostruosi, ibridi, spaventosi devianti. E se a essere sbagliato fosse proprio quest’immaginario sociale che può comprendere cambiamenti di tale portata solo quando, in preda al panico, li iscrive nel registro moralista della devianza? E se queste/i altre/i non programmate/i, fossero forme di soggettività che si sono semplicemente scrollate di dosso l’ombra della logica binaria e negativa per muoversi oltre? Il processo di trasformazione del soggetto prosegue: ci occorre un’ontologia processuale per redigerne resoconti adeguati.